I dati sono dati: gli allievi delle regioni del Sud Italia, in coda alle classifiche Ocse e Invalsi, sono invece ai primi posti per i voti all’esame di stato, e segnatamente per i 100 e lode, che sono anche notevolmente lievitati rispetto allo scorso anno. Così se in Puglia i diplomati con lode nel 2016 sono 934 e in Campania 713, in Lombardia sono 300 e in Piemonte appena 225.
Ad esser sinceri, la questione non ci appassiona: perché l’esame di stato, oggi, ha un valore talmente scarso dal punto di vista della spendibilità, che il voto conseguito ormai non è più discriminatorio per l’accesso in molte università italiane, e neppure in quelle straniere, così come nei master prestigiosi, dove è richiesta un’ottima votazione, ma non certo la lode. E quindi, perché ci si è strappati i capelli nell’estiva querelle che ogni anno, puntualmente, deflagra come i fuochi d’artificio allo scoccare delle dichiarazioni ministeriali sui voti dell’esame di Stato?
È vero, rimane il fatto in sé, l’ingiustizia, se così vogliamo definirla. Rispetto alla quale molte sono le osservazioni e le spiegazioni condivisibili di studiosi ed esperti: la stessa Ajello, presidente dell’Invalsi, ed altri hanno fatto notare come non si possa fare di ogni erba un fascio, che al contrario occorre contestualizzare rispetto alla situazione socio-culturale del Sud, dove esiste una decisa varianza tra scuole e classi eccellenti e scuole e classi di pessimo livello.
Fatte salve le spiegazioni, come risolvere l'”ingiustizia” perpetrata nei confronti degli alunni del Nord? Qualcuno invoca prove standardizzate nazionali, come fa Andrea Gavosto della Fondazioni Agnelli. E la stessa presidente dell’Invalsi ha caldeggiato — sulle pagine di Repubblica — la prova Invalsi per l’esame di stato, “una prova unica da Nord a Sud, svolta e corretta al computer, che darà risultati certificabili ed uniformi più obiettivi” in modo tale da far “piazza pulita” del problema della disparità di attribuzioni di voti nel nostro Paese.
Risolveremmo così il problema? In proposito è lecito nutrire più di un dubbio. Si è appena deciso di eliminare la prova standardizzata dell’Invalsi dagli esami finali del primo ciclo,  per una serie di motivazioni non certo peregrine, ed ora la si fa rientrare nell’esame di stato? Certo, la lode sarebbe meno garantita perché anche solo una “leggera caduta” nella prova Invalsi significherebbe dire addio alla lode. Esattamente uno dei motivi più persuasivi che hanno decretato la rimozione della prova dall’esame finale del primo ciclo.
Ricordiamo peraltro che nella cosiddetta terza prova a carattere generale, introdotta con il nuovo esame di stato (che nuovo ormai non è più), dopo i primi entusiasmi le scuole hanno a mano a mano abbandonando il “quizzone”, solo apparentemente più semplice perché, anche se preparato dai docenti interni, spesso diventa una trappola proprio per i più bravi senza garantire il successo dei più deboli. Le domande aperte più tradizionali sembrano assicurare maggiore equità di giudizio.



Analogamente, sembra cioè che la prova Invalsi a domande chiuse — necessarie per un rilevamento statistico, e per comparare i dati — riproduca gli stessi inconvenienti. E in più sarebbe un uso improprio dello strumento, che ha lo scopo di misurare il livello di conoscenze degli alunni, non di essere una prova d’esame.
Ma ammettiamone pure la liceità: che vantaggio ne trarrebbe uno studente del Nord? Probabilmente continuerà a prendere una valutazione più bassa di quella di un suo collega del Sud: ricordiamo l’abitudine dei docenti del Sud di attribuire voti generalmente più alti, utilizzando tutta la scala numerica da uno a dieci, come invece non avviene al Nord: meccanismo che — stante l’attuale normativa sull’attribuzione dei punti di credito agli studenti negli ultimi tre anni della secondaria superiore — impedisce a molti alunni bravi di accedere alla valutazione massima. Colpa degli insegnanti del Sud o di quelli del Nord?
E lo stesso studente del Nord,  proprio se è bravo rischierà, con una prova siffatta, di scivolare sulle domande dell’Invalsi: ma lì non ci sarà nessuno a recuperare il suo errore, a valorizzare il suo ragionamento divergente: lì l’errore si paga e basta. Insomma nessuna giustizia sarà fatta: certo, con una certa probabilità, le lodi e anche i 100 diminuiranno, sia al Sud sia al Nord. Ma che giustizia sarebbe? Per punire alcuni, si fa il male di molti anzi di tutti.
Occorre cambiare radicalmente le cose, passare probabilmente ad un esame di stato che certifichi le competenze dei ragazzi e non semplicemente attribuisca un voto, che ha anche il valore legale del titolo di studio. Occorre un ripensamento generale. Per ora, mentre il ministro Giannini preconizza un cambiamento (ma quale?) e il primo ministro Renzi la smentisce in simultanea, teniamoci quello che c’è: perché il rimedio potrebbe essere peggio del male.

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