Ritornerà, è solo questione di tempo, la polemica sulla generosità — chiamiamola così — delle scuole del Sud sui 100 e lode agli esami di maturità.
Credo però che non se ne possa uscire se non troviamo tutti assieme il coraggio di una “operazione verità”, in modo da pensare anche a come riformare una scuola che è ancora immersa in un contesto assistenzialistico, cioè centrato più sul destino occupazionale dei docenti che sulla qualità formativa da garantire agli studenti e alle famiglie.
Ma un’operazione verità può prendere piede solo se ci facciamo tutti persuasi che la verità è criterio di se stessa; e che, al di là delle nostre opinioni, conta il metodo. Fondato su dati ineccepibili e sulla consapevolezza che tutte le valutazioni ricevono un senso solo se non valgono per se stesse, ma si traducono in un orientamento per la vita.
È evidente che, qui, al centro di tutto, stanno le valutazioni dei docenti, magari mascherate dalle griglie di valutazione, ma senza una rete di comparazione che indichi non una qualche oggettività, che rimane sempre un ideale regolativo, ma almeno dei punti fermi che rendano trasparente quello che trasparente non è, visti i risultati finali delle lodi.
E quando diciamo “valutazioni”, diciamo anche — anzi, soprattutto — che, valutando, i valutatori si lasciano valutare. Traduco: sappiamo tutti che non basta mascherare con volti alti una preparazione non ottimale, se non scadente. Il che non significa che non possano esserci eccezioni, eccellenze. Ma le eccezioni sono, appunto, eccezioni.
Valutando, dunque, si è sempre valutati e valutabili. Che piaccia o no.
Quanti docenti meridionali che ho incontrato mi hanno raccontato di alcune eccellenze, ma, allo stesso tempo, mi hanno descritto situazioni a dir poco imbarazzanti delle loro scuole di origine. Senza che nessuno faccia niente. Quasi a dire che la qualità formativa, in troppe situazioni, è un aspetto non centrale, essendo il problema scuola solo uno strumento occupazionale, non un investimento per le giovani generazioni e per un sistema territoriale. Quanti di questi docenti mi hanno ringraziato per avere fatto, da noi, esperienza di un sistema scuola organizzato, consapevole della responsabilità verso i giovani, impegnato a garantire qualità, non la mera presenza.
Ricordo ancora bene, lo scorso anno, presidi campani giunti in Veneto fare come prima domanda: qual è il tasso di assenza di tutto il personale?, e sentirsi rispondere che è irrilevante, fisiologico. Sentirsi, ancora, confermare che la legge 104 è un diritto, non un dovere, per cui chi ne usufruisce sa che è giusto che la utilizzi quando effettivamente ne ha bisogno (e tutti conosciamo casi di affettivo bisogno), non a prescindere, magari per allungare le vacanze o i week-end.



Ritorno, perciò, sui dati: i diplomati con 100 e lode in Veneto quest’anno sono stati 276, contro i 934 della Puglia, i 713 della Campania, i 500 della Sicilia, i 300 della Lombardia, i 328 dell’Emilia Romagna. Domanda a questo punto legittima: se i dati dell’Ocse e dell’Invalsi dicono che il Veneto ha i punteggi più alti, cioè con studenti più bravi in italiano e in matematica, com’è possibile che abbia, di converso, meno studenti eccellenti  rispetto a regioni che registrano, nelle comparazioni con prove oggettive, i dati peggiori? I docenti veneti sono più cattivi, oppure sono più veritieri, meno disposti, cioè, a gonfiare i voti?
So benissimo che questi dati non vanno assolutizzati, perché vale il “valore aggiunto”. Eppur dicono alcune cose importanti.
Dicono, anzitutto, che i nostri studenti e le loro famiglie hanno bisogno di sapere come stanno le cose, se vogliono costruire una speranza concreta di futuro. Non serve cioè a niente avere pezzi di carta con titoli di studio e voti alti, se poi, al dunque, si è impreparati, incompetenti. Ma dicono anche a noi, ai presidi che in questi giorni sono occupati con le “chiamate” dei nuovi docenti (perché non estendere a tutti i docenti, come anche ai presidi, questo sistema delle “chiamate”?) e con le cattedre da assegnare, ma prima ancora ai docenti, che tutti possono e devono ripensare al lavoro fatto.
In tutti i Paesi avanzati esiste un momento nel quale i ragazzi vengono valutati, per legittimare in modo il più possibile oggettivo questo via libera verso le scelte, presenti e future. La valutazione cioè o è orientativa, o non è.
Se diamo un’occhiata agli esami di terza media sappiamo che non possiamo avere grandi riscontri. Se guardiamo a quelli di maturità, qualcosa in più lo possiamo dire. Anche se, prima ancora, andrebbe cancellato il vecchio retaggio del valore legale del titolo di studio. Un ferro vecchio.
Comunque una valutazione si deve fare, e se deve avere un senso, non può non essere comparativa, cioè di sistema.
Perché è giusto che i nostri ragazzi vengano valutati? A livello di abilità e di competenze, ma anche come capacità di gestione dello stress, di governo, cioè, delle proprie sensibilità verso le nuove complessità psicologiche e relazionali. È necessario, questa la risposta, che vi sia questo momento di valutazione: prima di tutto perché non siamo tutti uguali. La moderna complessità sociale chiede e pretende, invece, una analisi di queste nostre diversità. La selezione, dunque, è imprescindibile, secondo un qualche merito. Il quale va stabilito e deliberato dai valutatori per garantire a tutti la pari dignità. E tutti i valutatori (i presidi sui docenti, e i docenti sugli studenti) vanno, a loro volta, misurati su questi “risultati”. Equità e giustizia.
Allora la questione della vistosa ed ingiustificata differenza tra Veneto e Puglia sta proprio qui, nella mancata pari dignità.



Il problema italiano si chiama, dunque, assenza, negli esami di maturità, di prove standardizzate. Come sono, ad esempio, i test di ammissione all’università. Gli esami di maturità, lo si è visto, non garantiscono l’equità della valutazione. Troppa discrezionalità, potremmo concludere. Per questo motivo, da anni si parla di introdurre una prova Invalsi alla maturità. Se diamo un’occhiata ai Sat americani o al Gaokao cinese, vediamo che ci troviamo di fronte a prove per tutti, standardizzate, su poche materie fondamentali, corrette in modo omogeneo, così da garantire la confrontabilità dei risultati.
Invece da noi ogni commissione è tenuta ad adottare un proprio metro di giudizio, con griglie valide, lo sappiamo, solo per darsi una patente di legittimità, ma compilate quasi sempre dopo aver assegnato un punteggio. Quindi solo pura apparenza.
Non basta dare un’occhiata ai cento e lode nelle varie regioni. Lo stesso lo possiamo ripetere per gli esiti dei concorsi a preside o per la docenza nelle varie classi di concorso in Veneto o Lombardia con quelli campani o siciliani. Con la presa in giro finale: concorsi costruiti su base regionale, ma poi, chissà perché, aperti ai passaggi o trasferimenti inter-regionali, tradendo, così, l’omogeneità regionale, compresa la qualità delle diverse valutazioni. Ingiustizia su ingiustizia.
Allora, gli esami di maturità o si cancellano, perché sono uno spreco, lasciando alle università e al mondo del lavoro l’onere e l’onore della valutazione degli studenti (test o prove d’ingresso per tutti, senza più, per i docenti e presidi, i concorsi nazionali) oppure si trasformano secondo il modello delle prove standardizzate, capaci di fornire indicazioni chiare e leggibili sulle abilità e sulla qualità formativa dei percorsi di studio dei nostri ragazzi.
Ma ci vuole coraggio ad andar oltre il mito di questo esame, compreso l’obsoleto valore legale del titolo di studio. Ci vuole il coraggio della verità.

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