Continua la riflessione dell’autrice sui problemi, le sfide e le opportunità di un anno di prova affrontato nella scuola statale. Leggi qui la prima e la seconda parte.

Il Piano nazionale della scuola digitale — Vale la pena spendere alcune parole a proposito del Piano nazionale della scuola digitale.
Quando è stato pubblicato ho letto, per il desiderio di conoscere ciò che di nuovo si prospettava nel lavoro, le 140 pagine del Pnsd. Qualche tempo più tardi mi è capitato di imbattermi negli articoli pubblicati su questo quotidiano a firma Raffaela Paggi e Alberto De Simoni, cari e stimati colleghi, dall’Italia e dagli Stati Uniti, a cui mi rifaccio in molte delle affermazioni di queste pagine.
Devo dire che quello che ho visto quest’anno è stato per me sorprendentemente innovativo. Tralascio le osservazioni che si potrebbero fare circa impostazione e attuazione del Pnsd, dentro le numerose problematiche che ritengo sollevi e le condizioni di realtà con cui si scontra. Mi limito a dire quanto segue.
Da una scuola all’avanguardia, con Lim in ogni classe, efficienti laboratori di informatica e sperimentazione iPad in alcune classi del triennio, sono passata ad insegnare in un istituto che sta avviando il suo processo di innovazione, grazie all’iniziativa di enti pubblici e privati e all’imprenditorialità di dirigente e gruppi di docenti al lavoro sui bandi ministeriali.
La strumentazione a mia disposizione nelle ore di lezione era inferiore a quella cui ero abituata, e la fruizione dei dispositivi non poteva essere quotidiana, in quanto le Lim condivise avevano un fitto calendario di prenotazioni. Queste condizioni, all’inizio da me ritenute un limite per la didattica, si sono rivelate invece un punto di forza. Avere a disposizione in aula solamente una lavagna d’ardesia ha radicato in me la convinzione che il centro educativo della scuola sia la persona stessa dell’insegnante, che trasmette e comunica il sapere con la sua presenza e la sua parola.
In un biglietto che mi ha dato alla fine dell’anno, un’alunna di prima media ha scritto: “Il libro non serve a niente se non c’è una prof fantastica che te lo spiega”. Tralasciando l’affettuoso e immeritato aggettivo che mi ha riservato, ritengo che questa ragazza abbia colto il punto centrale della dinamica educativa: la crescita avviene grazie al rapporto con un adulto che aiuta ad orientarsi, a leggere, a dare senso a ciò che è presente sulle pagine dei manuali.
Se il compito della scuola è formare persone critiche e responsabili, questo può avvenire con qualsiasi strumento, anche di natura informatica. E allora ben venga qualsiasi strumento.
Si ritorna dunque, ancora, in ogni caso, ai sostantivi. A ciò che dà sostanza e sapore.



“L’uomo che piantava gli alberi” e lo sguardo vivo di un uomo — Non ho visto, entrando in classe, quel mondo di adolescenti annoiati e superficiali tanto deplorati e dipinti a foschi tratti dai media. O meglio: li ho visti, li ho incontrati; come li incontravo prima, nelle scuole paritarie in cui ho insegnato. Ho incontrato tanti problemi, le cui caratteristiche e dinamiche hanno sempre esondato i confini cui li si circoscrive perché per me hanno sempre preso la forma di un volto concreto che mi trovavo davanti. Inclusione, dispersione scolastica, bisogni educativi speciali, bullismo, videodipendenza… nella fantasia imprevedibile di questo scenario ho svolto il mio lavoro, trovandomi di fronte a situazioni che mi hanno spesso chiesto di cambiare e sempre di esserci. Semplicemente a volte di “stare”.
Una giorno, un alunno portato dal dirigente per una rissa durante l’intervallo, mi ha chiamato a gran voce nel corridoio dell’aula in cui lo avevo appena riaccompagnato affidandolo al docente di quell’ora di lezione. Quando mi ha raggiunto gli ho chiesto cosa avesse, dato che era appena rientrato in classe; mi ha detto che aveva avuto la tentazione di dare un pugno ad un compagno, ma che invece di farlo era venuto a cercarmi. A quel punto gli ho offerto una cioccolata. Qualche tempo dopo ho incontrato nel corridoio lo stesso ragazzo. Gli ho chiesto come stesse, mi ha risposto “Male”. “Perché?”, gli ho domandato. Mi ha detto che stava cercando di comportarsi bene, ma che faceva “una fatica…!”. Quanto ho imparato da quel ragazzo! Che cosa abbraccia le domande che i nostri alunni, con il loro linguaggio spesso non verbale e a volte irruente e provocatorio, ci pongono in continuazione?
Qualche anno fa, intenta a correggere degli elaborati dei miei studenti, ho assistito, nella sala professori di una delle scuole in cui insegnavo, a questo dialogo: al cambio dell’ora una giovane insegnante entra lamentandosi di una classe particolarmente turbolenta, sostenendo che i ragazzi non le permettevano di fare lezione e quindi di svolgere il suo lavoro. Un’altra giovane collega, alzando gli occhi dai compiti che anche lei stava correggendo, le ha risposto che il suo lavoro è insegnare a quelli lì, così come sono.
Si stenta ad accettarlo, ma ho l’impressione che in quelle parole ci sia il cuore della scuola.
In questi dieci anni di lavoro ho visto e incontrato ragazzi annoiati e stanchi, spesso disimpegnati e assenti, ma ho visto anche volti accendersi (un attimo davvero che vale l’eterno) di fronte a un testo di letteratura, ad una lezione di storia, a un corso di teatro o ad un progetto sulla Shoah che li ha coinvolti anche in orario extrascolastico.



Nel mio lavoro a scuola, dentro tanti problemi, ho incontrato uomini e donne che fanno ogni giorno il proprio lavoro con dedizione, a volte scoraggiandosi, arrabbiandosi, ma sempre ricominciando, aggrappandosi con tutte le forze ai bagliori intravisti negli occhi di un ragazzo trasportato per un istante alle soglie di un mondo più pieno, sulle tracce di contenuti resi vivi dalla presenza viva dell’insegnante: “[…] lo si studi per cinque minuti, lo sguardo che viene negli occhi a un ragazzo o una ragazza che risolve un problema. Si vedrà che lì dentro c’è tutto” ha scritto Andrea Bajani in un bell’articolo comparso due anni fa su Repubblica (“Il riscatto della fatica”, 21 settembre 2014).
È vero, ho incontrato anche adulti disillusi, ma ciò mi ha convinto sempre più che non ce lo possiamo permettere. Occorre trovare una speranza per sé. Non c’è riforma che possa sostituirla. Ho negli occhi infatti professionisti che, per ragioni che pescano nel punto più profondo della propria persona, accettano ogni giorno di varcare il muro che separa il loro universo da quello degli adolescenti che si trovano di fronte; gente che propone, insegnando, contenuti e metodi che possano aiutare l’alunno a crescere. Gente che propone. Ho incontrato dirigenti scolastici e docenti che lavorano fino a tardi per il bene della scuola, cioè per il bene dei suoi protagonisti, sé e gli altri (ci può essere distinzione?).
Due anni fa, una ragazza di terza liceo mi ha chiesto come facessi ad andare avanti a spiegare quando i suoi compagni erano distratti e disinteressati. Non lo capiva. Avrebbe presto rinunciato, al mio posto. Lei stessa tuttavia, nel dialogo che è seguito, mi ha offerto in dono la scoperta di un cortometraggio che ritengo dica molto di quello che è il lavoro del docente: Frédéric Back, L’uomo che piantava gli alberi, tratto dall’omonimo racconto di Jean Giono. Parla di un uomo che, con pazienza e dedizione, sceglie con cura ogni sera le ghiande che il giorno seguente pianta in un terreno arido e inospitale. Ciò che accade, alla fine, è sorprendente.
L’esperienza di quest’anno mi dice che anche dentro le imperfezioni di un sistema c’è sempre uno spazio di lavoro e di costruzione.
Queste pagine vogliono essere un contributo per un dialogo aperto e sincero. Ho la certezza che, dentro, oltre e al di là di tutte le riforme e polemiche possibili, la scuola sia fatta dalle persone che la abitano, la vivono e la costruiscono, cioè gli insegnanti, e che in quel punto infuocato del loro io si trovi la linfa vitale per l’incontro con ciascuno di coloro in cui si imbattono nel lavoro.
È così che, per tutti (alunni e docenti), può accadere quell’esperienza che una ragazza di seconda media ha descritto alla fine dell’anno, cioè la possibilità che, con la scuola, si possa “cambiare in meglio”.



(3 – fine)