Aprile è il più crudele dei mesi, diceva Eliot nella sua Waste Land. Condensando ciò che già qualche tempo fa commentava Daniele Gigli su queste stesse pagine, la crudeltà di aprile consiste nel misterioso sentimento che tutto ciò che fino ad allora sembrava soddisfare le aspettative degli uomini improvvisamente si rivela insignificante e inadeguato. Da qui un’agitazione ansiosa o, al contrario, una disperata immobilità, entrambe figlie del terrore del non senso, della consapevolezza che quello che circonda gli uomini altro non è che desolazione di polvere e macerie.



Ebbene, forse aprile non è il solo mese così. Almeno, pensando alla scuola e ai suoi tempi, forse crudeli allo stesso modo sono i mesi di luglio e agosto e, una volta, anche il mese di settembre: nell’estate del ’69, finita la prima classe della nuova, eroica scuola media unica, figlia della prima grande riforma, sui campi polverosi dell’oratorio o sulle spiagge delle colonie dove i nostri genitori ci spedivano per quindici giorni, non avevamo pensieri particolarmente preoccupati nei confronti del nuovo inizio della scuola, del suo ricominciare lento nel mese di ottobre. Troppo tempo in mezzo, pochi compiti, qualche pagina da leggere e forse un quadernetto da riempire. Ma nei nostri discorsi, qualche volta sì, si manifestava una certa ansia per il nostro futuro, il desiderio di sapere, ad esempio, se quei nostri professori, così tanti e diversi, dopo l’unica maestra delle elementari, sarebbero restati ancora con noi: Francesca sarebbe tornata a leggerci le pagine dei giornali o quei libri di autori stranieri su cui poi avremmo fatto schede e riassunti? 



Francesca aveva solo qualche anno più di noi, era una giovane laureata che arrivava da chissà dove, ma per noi figli di una Brianza che parlava con le vocali larghe, era sempre una che veniva da molto lontano con il suo accento e le sue parole strette. Adesso abitava a Milano, veniva con il treno da noi. Ma era di ruolo? Sarebbe tornata? E il professore di disegno, un pittore, che ogni tanto dava un passaggio a Francesca con la sua macchina azzurra, che andava via con lei nella nuvola azzurra insieme alle nostre gelosie di bambini innamorati della professoressa, lui sarebbe tornato? E quello di francese? L’unica certezza era la professoressa di matematica: perché di lei sapevamo che sarebbe di nuovo tornata in seconda? 



Noi vivevamo così, in una sorta di incertezza continua che però non ci toglieva mica la bellezza dell’estate, ci metteva un po’ di ansia, che però annegava dentro l’acqua del mare, o si scoloriva nella polvere, sui campi degli oratori. Ma quanto sarà stata crudele quell’estate per Francesca e il suo pittore? Dove avrebbero lavorato? Dove avrebbero abitato? Con chi avrebbero lavorato? Quali occhi avrebbero guardato nel mese di ottobre, da dietro la cattedra? 

Da quella prima riforma, coraggiosa e figlia di interessi diversi già allora in equilibrio precario, sono passati più di quarant’anni. E l’estate non è mai stata così crudele come oggi, per la scuola, gli insegnanti, gli alunni. Ci sono state molte riforme, tanti cambiamenti, ma la sensazione è ancora quella di uno stato delle cose che Eliot racconta nel suo poema. Il realismo è l’unico modo di essere visionari, sembra insegnarci ancora un grande poeta: ci sono insegnanti che hanno svolto un concorso e non sanno ancora i risultati; ci sono insegnanti che un concorso l’hanno vinto, hanno frequentato un Tfa e gli hanno chiuso la porta in faccia; ci sono dotazioni organiche aggiuntive che ancora non sanno se potranno fare il loro lavoro o dovranno invece rientrare a scuola, magari non la stessa, per costituire la task force della supplenza selvaggia; ci sono insegnanti che dopo avere partecipato a decine di corsi di aggiornamento e avere scritto curriculum vitae lunghi come romanzi reclamano, davanti a tali prove oggettive, il bonus promesso ai migliori (siamo poi sicuri che sia così che si misura la preparazione degli insegnanti?); ci sono presidi che tremano perché ancora invece non sanno come dare questo bonus o perché arriveranno ad essere giudicati anche loro, ma come? C’è in ballo la chiamata diretta da parte dei presidi e poi ancora mille cose che è forse inutile elencare. 

Ecco, il quadro è quello di un’agitazione convulsa, di macerie lasciate per strada, di un’incapacità di dare una direzione vera a tutti questi contraddittori segnali. Cosa racconta Eliot nella sua Terra Desolata? C’è bisogno di qualcuno che sappia guardare le macerie, che anzi non si metta a piangere sulle rovine, ma considerando quelle rovine come la materia che è a nostra disposizione, ne faccia materiale per costruire. C’è bisogno di qualcuno che sappia guardare, che riconosca le pietre scartate, che le possa far tornare a vivere: si può costruire una cattedrale con sassi sghembi  e pietre sbilenche, con sabbia e acqua, bisogna sapere cosa si vuole, a chi e per chi costruire, a cosa serve quella cattedrale. 

Qualche volta porto i miei alunni — quelli dell’ultima riforma già in ansia quando ancora era solo sulla carta e già corretta e già da riformare prima ancora di essere applicata — a visitare la grande basilica romanica di Agliate, insisto perché vedano attentamente le colonne: nessuna uguale all’altra, nessuna costruita con le stesse pietre, eppure in grado di reggere, di disegnare e indicare una strada. Ecco, come dice Eliot, ci vuole qualcuno che sia in grado di tornare a guardare anche le macerie e comprenderne il senso. Per fare questo c’è bisogno però di guardare negli occhi quei ragazzi che stanno seduti nei banchi, di ascoltare soprattutto le loro aspettative: anche se non sono, come me nell’estate del ’69, sui campi dell’oratorio, in colonia e non si chiedono se Francesca tornerà nella nuvola azzurra della macchina del prof di disegno, la domanda di senso che li abita è la stessa di allora, di sempre. E se qualcuno può pensare che è troppo comodo chiuderla così, che ci vogliono scelte, decisioni, ben altro che lo sguardo, insomma, per fare una riforma, risponderei che in questo consiste proprio la politica: nella capacità di indirizzo, di direzione dello sguardo. E che non serve agitarsi per fare credere che le cose cambiano o disperarsi perché le cose non mutano o lo fanno troppo in fretta. Risponderei che qualche volta conviene ascoltare i poeti.