“E tutto cospira a tacere di noi, un po’ come si tace/ un’onta, forse, un po’ come si tace una speranza ineffabile“.
Questi versi sono il cuore della seconda elegia duinese di Rainer Maria Rilke, il battito tragico da cui prendono avvio alcune tra le più straordinarie pagine della poesia di ogni tempo. Sono proprio questi versi che mi sono venuti in mente nei giorni scorsi, vissuti dentro una scuola ancora vuota di gridi e di passi, piena soltanto di riunioni e collegi, di consigli di classe e gruppi di lavoro e di progetti.
Ma tutto cospira a tacere di noi proprio lì dove di noi si dovrebbe tornare a parlare.
Di noi, degli uomini e delle donne piccoli che incominciano la loro scuola, di quelli più grandi che la riprendono, degli adulti che, facendo gli insegnanti, non hanno mai smesso di ricominciare ogni volta. Perché se fai l’insegnante non puoi non ricominciare ogni volta a chiederti, come se lo chiedono le facce che hai davanti nei banchi, per cosa vale la pena essere lì, insieme.
Ma di questo noi, del cuore vero della scuola, del battito da cui tutto ha inizio tra questi muri si tace, come dice il poeta.
Potremmo raccontare soltanto qualche frammento, qualche episodio di questi giorni, per capire come, per illustrare questo silenzio colpevole coperto dal frastuono vuoto di mille altre voci insensate. Collegio docenti, scuola superiore, centinaia di insegnanti, porto di mare, gente con le valigie, facce nuove e impaurite che non sanno nemmeno come ci sono arrivate lì. Ma sanno che sono capitati in un brutto momento: qui si sa già chi ha ricevuto il bonus e anche se per via della privacy i nomi non si devono appendere al muro, cominciano le discussioni, le liti. Voi avete deliberato i criteri e lei che si lamenta dov’era quando voi tutti avete votato? Assomiglia già a una lista di proscrizione: lui perché? Lei come mai?
Altro frammento, altra scuola, altra città. Consiglio di classe: l’alunno, che chiameremo Kevin, non ce la fa più a stare in questa classe, troppo il divario con i suoi compagni, lui così cresciuto in fretta tra il fumo e la fatica di trovare qualcuno da guardare negli occhi. Progetto su misura per lui cucito da qualche istituzione o ente convenzionato: tre giorni fuori di qua, fuori dalla scuola dove gli altri potranno continuare con le loro gambe e il loro passo. Possibile che nessuno dica nulla? Solo due mesi fa tutti voi avevate detto che l’esperienza di un percorso esterno dell’anno prima era stata devastante, dice uno dei professori. E adesso va bene, domanda? Perché? E quei tre giorni in cui tornerà qui sarà più incluso di prima? Non è forse questa — inclusione — una delle parole d’ordine della scuola? Lo si butta fuori perché voi vi arrendete, perché voi alzate bandiera bianca? Ma per lui questa è la cosa migliore?
Potremmo continuare: altro consiglio di classe, altri attori, altro assordante silenzio su noi. Progetto per un alunno che chiameremo Brian, scritto nero su bianco già dalla fine dell’anno precedente: non il vangelo, un’idea per Brian e magari anche per gli altri, loro ne riparlano. Qualcuno dice che è vero, che è scritto e che si deve fare, ma non ci sta dentro nel computo esatto delle ore e dei luoghi, dice lui, guardando il programma. Si deve fare, ma lui non ci sta.
Basta, nessun altro frammento, nessun’altra scena di assordante silenzio. Dovrebbe bastare: la scuola può essere impotente e sconfitta, ma noi, noi possiamo ancora rischiare? Possiamo ancora dire: io sono qui per te e con te? E accorgerci che anche tu sei qui per me? Che soltanto ricominciando a pensarci così la scuola torna ad esistere? E non è solo una questione di pronomi o aggettivi. Come dice ancora il poeta solo così “noi che pensiamo la felicità/ come un’ascesa/ ne avremmo l’emozione quasi sconcertante/ di quando cosa che è felice, cade“. Forse questo è l’unico augurio che dovremmo farci incontrandoci in questi giorni in cui ricominciamo la scuola: possa tu riuscire a dire nuovamente io, possa finalmente ridire tu e accorgerti di me. E spegnere il frastuono inutile e insensato che uccide la nostra voce.