Se un’azienda assumesse 120mila persone in due anni in un territorio di 300mila km, con 30mila da concludersi in cinque giorni (fra il 5 e il 10 settembre secondo la nota Miur), si parlerebbe di  miracolo della crescita e di un rinnovamento e ringiovanimento straordinari del personale, e il gestore di tale incredibile rinnovamento verrebbe lodato apertamente. Non avrebbe certo bisogno di “difendersi”, come ha fatto, con affermazioni solo in parte condivisibili, il ministro dell’Istruzione Giannini nella sua recente apparizione a Politics. Se l’azienda è la scuola, e le assunzioni sono la sanatoria del peccato mortale del sistema stesso — aver generato una generazione di precari entrati da neolaureati ed ora padri e madri di famiglia — nel porvi mano per risolverlo non vi è nessun miracolo economico, e chi è entrato nel sistema non è di certo un giovane laureato, visto che le Gae sono state chiuse nel 2008 e fra laurea, Ssis per abilitazione da aver già messo in tasca in tempo utile per l’ultima immissione nelle Gae, anche il docente che ha appena concluso il suo anno di prova ha almeno 33-35 anni, e presumibilmente insegna da almeno una decina di anni. Questo nella più ottimistica delle stime, e senza voler prendere in considerazione chi di anni di precariato ne abbia fatti una trentina, e si veda immesso in ruolo in età più da pensione che da neo-assunzione.



Nel sentire comune, operazioni e figure del piano di assunzione straordinario appena concluso (in teoria) con l’apertura del nuovo anno scolastico sono stati ridenominati  da “dirigente scolastico” a “preside sceriffo” (deciderebbe chi vuole assumere), da “mobilità straordinaria” a “deportazione” (flusso di docenti dal Sud al Nord), da “chiamata per competenze” a “chiamata diretta” (l’assegnazione di incarico al docente che ha competenze il più possibili uguali al profilo individuato nell’organico dell’autonomia), da “precariato” a “supplentite”; e tutti i nomignoli danno voce alle paure e alle accuse indignate che dominano questo avvio di anno scolastico.



Non pare condivisibile il grido alla “deportazione” che si è levato (chi fece domanda a luglio 2015 sperava di essere fra i fortunati a rientrare sulla scuola o ambito desiderati, e non tutte le speranze diventano realtà), anche se l’aver reso noto l’algoritmo solo a giochi fatti e il balletto delle cifre su quanto pesante sia stata la deportazione, peraltro negata dal ministro Giannini, non hanno certamente contribuito ad un avvio d’anno se non regolare, almeno non teso. 

Non pare condivisibile nemmeno lo scandalo di chi ha tuonato contro quei dirigenti che hanno scelto docenti a loro conosciuti perché già in servizio presso il loro istituto, magari arrivandoci attraverso il rispetto formale della chiamata per competenze da loro regolarmente pubblicata. In quale azienda si deplorerebbe chi assume una persona perché avendola vista lavorare, la ritiene valida? 



Perché la scuola dovrebbe proporre esperienze formative di alternanza scuola-lavoro, che, almeno per gli istituti professionali e tecnici, è da sempre uno dei modi in cui le aziende individuano potenziali candidai idonei e non idonei ad una assunzione, e poi scandalizzarsi se un dirigente scolastico si comporta, nel rispetto delle nome, allo stesso modo?

Più controversa appare, invece, la nota Miur riguardo l’utilizzo dell’organico dell’autonomia, perché che ci sia stato un mismatching fra domanda ed offerta di docenti del potenziamento e che questi vadano innanzitutto a coprire le supplenze non è una vox populi, ma legis.

Condivisibile, invece, il grido di allarme per collegi docenti di inizio anno con sedie vuote, o occupate da docenti provvisori perché in attesa di una nuova assegnazione, e anche e soprattutto il grido di allarme relativo ai posti di sostegno, in teoria creati per sostenere gli studenti in situazione di grave difficoltà, ed offerti invece in pasto a chi ricerca un’assegnazione provvisoria per sfuggire alla “deportazione”. Condivisibili entrambi perché non fanno che riaffermare la logica perversa che la scuola sia per i docenti, e non per gli studenti. Quest’affermazione, centrale all’intervento del ministro Giannini al su citato programma televisivo Politics, può suonare vuota per la lunga usura che ha subìto, ma il suo valore civico è indiscutibile.

Che sia pubblica o privata, la scuola è un servizio pubblico, e l’articolo 34 della Costituzione afferma che è diritto di tutti, anche di coloro che non hanno i mezzi per quello studio che potrebbe migliorare la loro vita. E per una volta l’articolo 33 della Costituzione merita una citazione non per il “senza oneri per lo Stato” la cui interpretazione impedisce in Italia, in una lettura ovviamente già pregiudizievole, l’instaurarsi di un sistema realmente integrato di scuola pubblica e pubblica, ma per il più nobile “La Repubblica istituisce scuole statali per tutti gli ordini e gradi”. E’ un servizio pubblico il cui esercizio costituisce un dovere costituzionale, e non un diritto sindacale, pur essendo il lavoro (ma non necessariamente un posto nella scuola) un diritto del cittadino.

La trasformazione del diritto all’istruzione, di cui secondo l’articolo 33 tutti i cittadini italiani devono usufruire per almeno otto anni (attualmente l’obbligo si estende fino al compimento del 16esimo anno di età), e del diritto allo studio, che prosegue fino agli studi universitari, nel “diritto del lavoratore/docente” è avvenuta per cattiva politica scolastica stratificata, che nel sistema scuola sembra sapersi rigenerare dalle ceneri della caduta di qualsiasi governo e/o ministero, e per il concomitante dilagare da una parte di un sindacalismo di bassa lega che nulla ha a che vedere con la difesa dei diritti dei lavoratori in reali condizioni di sfruttamento, e dall’altra per il degradare di una mentalità comune sempre più preda della logica dei diritti. Una fine ben triste per tre diritti — allo studio, all’istruzione ed al lavoro — che comparvero nella Costituzione italiana alla sua entrata in vigore il 1° gennaio 1948.  

C’è da operare perché i 70 anni della Costituzione italiana nel 2018 siano da celebrare, come in quest’anno i 70 anni della Repubblica, come momento di memoria storica; nel caso della Repubblica, per la capacità di dialogo fra le parti che è stata più volte sottolineata nelle occasioni di commemorazione, e nel caso della Costituzione, per quella ricerca di bene comune e crescita individuale che per quanto riguarda la scuola sono riassunte in affermazioni  quali “La Scuola è per tutti” e “la scuola forma gli uomini”. I filmati dell’archivio luce relativi al sistema scuola negli anni successivi alla nascita della Repubblica e alla promulgazione della Costituzione ci restituiscono questa idealità, che la Buona Scuola non possiede.