Ha suscitato scalpore il grande numero degli aspiranti docenti esclusi dalle prove orali nei concorsi in corso di svolgimento. Secondo i dati resi noti si tratterebbe complessivamente di una quota tra il 50 e il 60 per cento dei candidati con punte del 70-80 per cento in alcune classi di concorso. L’impressione immediata è quella di trovarsi di fronte a una pericolosa massa di persone impreparate, nonostante il possesso dell’abilitazione all’insegnamento.
Analisi troppo facile; a un esame più attento la diagnosi è più articolata. Accanto all’insufficiente preparazione di molti candidati e all’improvvisazione di chi, come spesso accade in tutti i concorsi pubblici, concepisce la prova come una lotteria nella speranza di estrarre il numero vincente, bisogna considerare anche alcuni fattori esterni come i programmi d’esame eccessivamente pretenziosi, la nuova impostazione delle prove scritte, le domande in lingua straniera, la composizione, in taluni casi, frettolosa delle commissioni, l’errata convinzione che basterebbe l’esperienza accumulata nell’insegnamento (sulle spalle degli allievi) per superare le prove concorsuali.
Lo shock provocato dai dati del concorso, oltre a suscitare preoccupazioni momentanee, dovrebbe soprattutto suggerire una seria riflessione su alcune questioni di fondo. La prima delle quali è da tempo nota: la scuola si sta riducendo — o addirittura è già ridotta — a luogo di assorbimento della disoccupazione intellettuale anziché essere un luogo ove perseguire l’eccellenza culturale ed educativa. Da circa un quarantennio è stata azzerata la valutazione meritocratica in ingresso frettolosamente identificata con i severi concorsi che dominarono il campo fino agli anni 60. Quel tipo di filtro concorsuale — forse è il caso di ricordarlo — assicurò alla scuola italiana per molto tempo una classe docente di altissimo profilo, non di rado con i migliori che accedevano alla carriera universitaria o coltivavano professionalità di primo piano nell’ambito tecnico e scientifico.
I tempi sono cambiati e quei concorsi non sono più replicabili negli stessi termini, in specie nella realtà della scuola dell’autonomia ove, in via di principio (e se l’autonomia fosse davvero tale), ciascuna scuola andrebbe posta nelle condizione di reclutare di volta in volta il personale necessario in coerenza con gli obiettivi della scuola stessa. Resta invece intatta l’istanza di una selezione rigorosa dei candidati in entrata. Senza contare che la difficoltà a espletare le prove nei tempi dovuti (dai ritardi nella pubblicazione del bando alla lentezza delle commissioni a svolgere gli esami) dimostra che i concorsi nazionali sono ormai impraticabili anche dal punto di vista soltanto organizzativo.
Non è necessario scomodare le raccomandazioni dell’Ocse per capire che non c’è scuola all’altezza dei compiti che le sono affidati se non è animata da un corpo docente ben selezionato e da una valida dirigenza. Da noi, invece, nessun governo ha avuto la forza per troppo tempo — dietro le pressioni sindacali e gli interessi delle lobbies spesso trasversali interessate a proteggere le clientele dei precari — di perseguire una seria politica del personale.
Neppure oggi sembra che l’opinione pubblica avverta le gravi conseguenze di tale mancanza, anche se, come è ben noto a tutti, le famiglie al momento dell’iscrizione sono ben attente a scegliere per i figli le scuole ove più alto è il prestigio degli insegnanti. Hanno invece grande eco le lagnanze dei docenti che, per ragioni del tutto personali (che spesso purtroppo non coincidono con le esigenze generali), protestano per i trasferimenti cui sono destinati. Lo scarto tra il problema di fondo e le questioni personali dei singoli può essere così rappresentato: è come se un autista fosse preoccupato del non perfetto funzionamento del tergicristallo e partisse senza invece accorgersi di essere a secco di carburante.
Una seria e coerente politica del personale richiede diverse e concatenate iniziative riguardanti le varie fasi della carriera: la formazione iniziale, il reclutamento, la formazione in servizio, la valutazione delle prestazioni professionali, la progressione della carriera. Spesso queste varie questioni sono invece affrontate a spezzoni e indipendentemente l’una dall’altra. Ma anche quanto si individua un obiettivo preciso e circoscritto la navigazione è spesso a vista, se non proprio casuale. È precisamente quanto è accaduto negli ultimi due decenni, ad esempio, in materia di formazione iniziale.
Verso la fine degli anni 90 si verificò il più serio tentativo per migliorare la preparazione del personale con l’avvio delle scuole di specializzazione (Ssis) per i futuri docenti di scuola secondaria e l’innalzamento a livello della laurea della formazione dei maestri elementari. Le Ssis rappresentarono, in particolare, un’esperienza del tutto innovativa e diedero vita a esperienze interessanti. Le università spesero molte risorse per dotarsi di strutture e personale in grado di far fronte ai nuovi impegni loro attribuiti dal legislatore, anche se, a onore del vero, non tutte le esperienze furono esenti da qualche improvvisazione.
Dopo pochi anni, nel 2008, in seguito a un’ingenerosa campagna scandalistica, le Ssis furono frettolosamente liquidate e sostituite nel 2010 da altre modalità formative che avrebbero dovuto accentuare l’aspetto pratico-professionale della formazione iniziale: il cosiddetto Tirocinio formativo attivo (Tfa) che, non appena fu avviato (ma solo nel 2012), rese necessaria anche una versione semplificata per quanti, nel frattempo, erano già entrati in servizio: i Percorsi abilitanti speciali (Pas). Fino alla legge sulla Buona Scuola il Tfa e i Pas sembravano finalmente la soluzione stabile. Ma nel frattempo il provvedimento dell’anno scorso ha rimesso tutto in discussione e si è ora in attesa di conoscere quali saranno sia le modalità sia di formazione dei futuri docenti e sia le procedure di reclutamento.
Quella che sembrava una linea strategica ben definita, nel giro di pochi anni è stata smontata e rimontata due volte. Non si va da nessuna parte se si continua a cambiare, di volta in volta, gli assetti formativi secondo la volubile opinione chi è chiamato a decidere. È inammissibile che i giovani laureati non siano in grado di programmare il loro futuro e siano esposti a continui cambiamenti. Di fronte a tanta incertezza è inevitabile che si ingeneri la speranza da parte di chi cerca un posto nella scuola di tentare tutte le strade, anche quella di un concorso all’insegna del “non si sa mai”.
Si potrebbero portare anche altri esempi sulle incertezze (se non proprio contraddizioni) con cui è stata affrontata negli ultimi decenni la questione docente: il merito scisso da una progressione di carriera che premi i migliori e ne valorizzi l’esperienza e le capacità tutoriali; la formazione in servizio oscillante tra obbligo e volontarietà, tra scelte personali e iniziative di istituto; la mancata valorizzazione dell’autonomia in quanto occasione anche per potenziare la qualità della docenza; l’indifferenza della politica verso la caduta del prestigio sociale della figura del docente.
Se si vuole davvero innalzare la qualità della scuola italiana la classe politica non potrà eludere i problemi qui sommariamente richiamati. Chi ne avrà il coraggio?