In un suo articolo apparso su queste pagine, Giorgio Chiosso ha sostenuto che la vera missione della scuola è permettere a coloro che la frequentano di “immaginare un mondo diverso da quello consegnato loro anziché pensarli come diligenti attori pronti a inserirsi dentro un copione già tutto scritto”. Io credo, in effetti, che compito fondamentale della nostra scuola attuale, di qualsiasi ordine e grado, sia proprio aiutare un giovane ad aprire gli occhi sulla realtà, interrogandosi su di essa, così da poter pensare e immaginare il nuovo. Se questo è vero, la prima strada per insegnare quest’apertura di mente e cuore è la lingua. A scuola si parla, si legge e si scrive, e ogni disciplina richiede una lingua sua propria, un lessico specifico, che è così importante far acquisire per poter instaurare una relazione libera e intelligente con il mondo.



Ce ne offre un autorevole esempio, in negativo, Hannah Arendt nella sua famosa inchiesta La banalità del male (1963). In più passaggi la Arendt dimostra come all’origine della cieca obbedienza dei funzionari nazisti a ordini disumani vi fosse uno svuotamento della coscienza, operato per mezzo di una manomissione delle parole, e di una conseguente alterazione del loro significato.



Il primo espediente era la sostituzione di termini duri con eufemismi: “(…) tutta la corrispondenza relativa alla questione [ebraica] doveva rispettare rigorosamente un determinato ‘gergo’, e se si eccettuano i rapporti degli Einsatgruppen [le unità mobili delle SS addette allo sterminio dei paesi dell’Europa orientale] è raro trovare documenti in cui figurino parole crude come ‘sterminio’, ‘liquidazione’, ‘uccisione’. Invece di dire uccisione si dovevano usare termini come ‘soluzione finale’, ‘evacuazione’ (Aussiedlung) e ‘trattamento speciale’ (Sonderbehandlung); invece di dire deportazione bisognava usare parole come ‘trasferimento’ o ‘lavoro in oriente’ (Arbeitseinsatz im Osten) (…). Del resto, il termine stesso usato dai nazisti per dire ‘gergo’ (Sprachregelung, ossia ‘regole di linguaggio’) era in fondo un termine in codice; significava quello che nel linguaggio comune si chiamerebbe menzogna” (p. 93). 



Cancellati i termini che indicano il compimento del male, era modificata la percezione stessa che gli esecutori avevano del proprio operato: “Questo sistema aveva un effetto molto importante: i nazisti implicati nella ‘soluzione finale’ si rendevano ben conto di quello che facevano, ma la loro attività, ai loro occhi, non coincideva con l’idea tradizionale del ‘delitto'” (p. 94).

Dal lessico si giunge poi alla sintassi: Himmler, il comandante delle forze di sicurezza del Terzo Reich, aveva coniato degli slogan roboanti “per risolvere i problemi di coscienza”, come “il mio onore è la mia lealtà”. E così, il singolo si abituava a pensarsi come membro di un magnifico divenire storico, per il cui successo era richiesta anche la sua devota collaborazione: “Ciò che più colpiva le menti di quegli uomini che si erano trasformati in assassini, era semplicemente l’idea di essere elementi di un processo grandioso, unico nella storia del mondo (‘un compito grande, che si presenta una volta ogni duemila anni’) e perciò gravoso.” (…) 

“Perciò il problema era quello di soffocare non tanto la voce della loro coscienza, quanto la pietà istintiva, animale, che ogni individuo normale prova di fronte alla sofferenza fisica degli altri. Il trucco usato da Himmler (…) era molto semplice, e, come si vide, molto efficace: consisteva nel deviare questi istinti, per così dire, verso l’io. E così, invece di pensare: che cose orribili faccio al mio prossimo!, gli assassini pensavano: che orribili cose devo vedere nell’adempimento dei miei doveri, che compito orribile grava sulle mie spalle!” (pp. 113-114). 

L’imputato del processo di Gerusalemme del 1961, Adolf Eichmann, è descritto dalla Arendt come una perfetta vittima di questo sistema di ottundimento dell’identità. Direttore dell’ufficio preposto alla smistamento di ebrei verso i campi di sterminio, al suo processo Eichmann fece affermazioni non credibili, quali: “Con la liquidazione degli ebrei io non ho mai avuto a che fare; io non ho mai ucciso né un ebreo né un non ebreo, insomma non ho mai ucciso un essere umano; né ho mai dato l’ordine di uccidere un ebreo o un non ebreo: proprio, non l’ho mai fatto” (p. 30). Eppure, la Arendt deve rendersi conto che, nella mente dell’imputato, quelle dichiarazioni erano veritiere e rilasciate secondo coscienza, infatti per Eichmann “(…) il gergo burocratico era la sua lingua perché egli era veramente incapace di pronunziare frasi che non fossero clichés. (…) Quanto più lo si ascoltava, tanto più era evidente che la sua incapacità di esprimersi era strettamente legata a un’incapacità di pensare, cioè di pensare dal punto di vista di qualcun altro. Comunicare con lui era impossibile, non perché mentiva, ma perché le parole e la presenza degli altri, e quindi la realtà in quanto tale, non lo toccavano” (pp. 56-57). Infine, la Arendt sa bene che il caso da lei studiato non è che uno tra molti: “Ma il guaio del caso Eichmann era che di uomini come lui ce n’erano tanti e che questi tanti non erano né perversi né sadici, bensì erano, e sono tuttora, terribilmente normali” (p. 282).

Alla ripresa dell’anno scolastico, è doveroso ricordare l’enorme potenziale educativo che, nonostante tutto, risiede nelle parole che ciascun maestro o professore potrà trasmettere in aula ai suoi studenti, introducendoli nella lingua della materia che insegna. La posta in gioco è alta, se la Arendt stessa, riflettendo sulla propria vicenda, afferma: “(…) se una cosa si può ragionevolmente pretendere, questa è che sul nostro pianeta resti un posto ove sia possibile l’umana convivenza” (p. 240).