L’esame di maturità potrebbe essere a una svolta. E con lui anche quello di terza media. Le novità sono contenute nella bozza di decreto attuativo della legge 107/2015 “Buona Scuola”. Dalla maturità sparisce il quizzone, arriva una prova Invalsi di italiano, matematica e inglese che non entra nel voto finale ma fornisce un elemento comparativo; si dà più peso, nella valutazione finale, al curriculum dello studente. La riforma interessa anche elementari e medie. Niente bocciature nella primaria, ammesse alle medie solo in casi eccezionali; si accantonano i voti e si torna alle lettere, mentre arriva per elementari e medie una prova standardizzata di inglese. L’esame di stato del primo ciclo risulterà semplificato, con due prove scritte più colloquio invece delle attuali sei più colloquio. La prova Invalsi verrà fatta durante l’anno e non peserà sul voto finale. I dubbi e le riserve di Luisa Ribolzi, sociologa e docente di scienze della formazione, opinionista del Sole 24 Ore.
La bozza di decreto intende essere “attuativa” della legge 107. Ancor prima che essere coerente o meno con questa, è una buona bozza?
Premesso che non sono specificamente competente sul tema della valutazione degli studenti, provo a rispondere avendo in mente un’idea complessiva del processo di valutazione.
Ci dica.
Direi allora che raccogliere insieme tutti gli aspetti della valutazione, dalla scuola di base all’ex maturità, possa consentire uno sguardo complessivo e quindi valutare se esiste una logica. La logica si misura rispetto ai criteri, che mi paiono essere la valenza formativa e migliorativa della valutazione, la presenza di prove oggettive che riducano il peso della soggettività “geografica” nei punteggi finali, e però la presenza di qualche spunto che valorizzi la personalità complessiva degli alunni.
Quindi?
Dopo di che, come sempre negli approcci che vogliono comprendere tutto, ci sono luci ed ombre. Spero che il coinvolgimento dei docenti, attraverso le associazioni, faccia prevalere le luci.
Contro gli esami di stato ci sono proteste da tempo. La bozza le pare una buona cosa?
Considero l’esame di stato del secondo ciclo (siamo in attesa di un film sulla notte prima dell’esame di stato del primo ciclo…) così com’è ora un rito costoso e sostanzialmente inutile: promuove la quasi totalità degli ammessi, suscita polemiche per l’arbitrarietà dei punteggi, rimasta invariata da quando c’erano i voti in decimi, in centesimi, in sessantesimi e non ricordo se ce ne sono stati altri, è gradito solo a una minoranza di docenti, tanto è vero che la disponibilità a fare i commissari è molto bassa, e nonostante le retribuzioni siano risibili comporta spese molto alte e transumanze in giro per il paese. La mia idea, i lettori del sussidiario la conoscono, è forse improponibile e comunque non popolare.
Vuole ricordarla, per favore?
Si dovrebbe chiudere la secondaria al quarto anno con una valutazione sugli apprendimenti nelle diverse materie derivante dal giudizio dei docenti della scuola e dal punteggio conseguito ai test, suggerendo eventualmente un periodo ulteriore per le materie insufficienti. A seconda del percorso scelto (passaggio diretto al lavoro, ingresso in università, proseguimento in un percorso breve) si potranno richiedere competenze più elevate in alcuni settori, da valutare in entrata e non in uscita, a cura dell’istituzione ricevente.
Le parole chiave della bozza di decreto sembrano le stesse, dagli “apprendimenti” alla “certificazione”. E su tutto primeggiano le “competenze”. E’ ancora un lessico adeguato?
Non mi pare un problema di vocabolario, se non si usa per girarci intorno. Mi pare piuttosto un po’ macchinoso il modo di composizione del punteggio finale, con un mix fra valutazioni soggettive e oggettive, e non capisco bene il ruolo dell’alternanza. Se, per esempio, la presenza di un ragazzo in impresa fosse stata disastrosa? Cosa sono i certificati di competenze rilasciati dalle aziende, e con che criteri vanno compilati? iIl peso dell’alternanza sarà il medesimo per chi ha fatto 400 ore e per chi ne ha fatte 200?
I test Invalsi sono stati al centro di confronti molto aspri. Si era anche pensato di usarli come clava per bastonare chi (il sud) inflaziona di 100 il mercato dei diplomati. Cosa pensa della soluzione proposta, nelle medie e nelle superiori? Il test non influirà sul voto finale, ma avrà una funzione comparativa e orientativa.
Nel nostro paese i test sono considerati da una parte non piccola dei docenti “instrumentum diaboli” a prescindere, anche se il dibattito sulla soggettività dei voti ha forse fatto nascere qualche dubbio. Se si utilizzano, sarebbe opportuno essere più chiari e decisi in merito, ed è corretto che i docenti siano tenuti a somministrarli, così com’è auspicabile che Invalsi abbia le risorse umane e finanziarie per strutturarli e somministrarli al meglio.
Nella secondaria di I grado si intende spostare “l’attenzione dalle etichette (voti, giudizi ecc.) agli effettivi apprendimenti realizzati (di conoscenze e di competenze)”. Questo, stante la soluzione proposta (valutazione con A, B, C, D, E) avviene davvero?
No. Quando furono introdotti i giudizi (ottimo, buono, eccetera) i bambini chiedevano: ma ottimo vuol dire nove? Quando furono reintrodotti i voti, chiedevano: ma nove vuol dire ottimo? Adesso penso che succederà lo stesso, perché i bambini hanno bisogno di un messaggio chiaro, che sia poi accompagnato da tutti i necessari distinguo.
Dove sta il problema?
Il problema non è l’indicazione sintetica del livello raggiunto, ma la descrizione, e l’attuazione di “modalità di valutazione che supportino la motivazione di ciascun alunno”. I docenti sono in grado di farlo? e chi preparerà — il Miur, parrebbe — le prove costruite sulla base di “quadri di riferimento espliciti che tengano conto dei profili in uscita, delle indicazioni nazionali” eccetera?
Ancora: “le lettere non sono da usare come voti, ma come descrizione del raggiungimento di un livello complessivo di apprendimento e di descrizione di competenze, sulla base di indicatori nazionali”. E nella valutazione quotidiana? Lei vede una operazione seria o siamo al palliativo lessicale?
L’espressione “palliativo lessicale” mi piace, e forse la possiamo applicare anche alla descrizione del documento di valutazione finale, che a meno di un uso accorto e innovativo del copia e incolla parrebbe comportare ore di compilazione per ogni maturando — pardon, esaminando del secondo ciclo —. Fortunatamente in classe una buona parte dei docenti, non tutti ma nemmeno pochi, sa benissimo cosa fare per valutare i suoi allievi nel modo più costruttivo.
Ma come valuta nel complesso la formula del nuovo esame di maturità?
Lo ritengo, come ho detto, inutile, per cui quale che sia la formula può essere tutt’al più meno brutto dell’attuale.
Lo svolgimento delle attività di alternanza scuola-lavoro diventa un requisito di ammissione all’esame. D’altra parte in molti casi queste attività sono state nientemeno che… simulate. Che ne pensa?
Vero. Non saprei, io lo escluderei perché questa normativa può spingere alcune scuole a scelte inconsulte, di cui pagherebbero le conseguenze i ragazzi. Gli esiti dell’alternanza, a mio avviso, andrebbero consegnati al docente tutor che li farà avere ai docenti delle materie coinvolte. Ritengo anche problematico chiedere alle aziende di esprimersi in termini di “competenze acquisite”. Possono dire ai docenti che cosa i ragazzi hanno fatto e come lo hanno fatto: sta poi a loro, ai docenti, tradurre questo in competenze. Il voto di alternanza è un paradosso. Però non lo affermo con assoluta certezza, dovrei pensarci meglio.
I suoi suggerimenti?
Come si fa a modificare l’esame rendendolo coerente con il progetto educativo di una scuola, se non si abolisce il valore legale del titolo di studio, costringendo così i valutatori in una gabbia che impedisce di muoversi?
(Federico Ferraù)