Caro direttore,

Mi permetta di approfittare dello spazio del sussidiario, che è sempre caratterizzato dalla libertà di parola, dal pluralismo dell’informazione e dalla varietà dei punti di vista.

Andiamo a ripercorrere i fatti salienti. Quando nel 2014 ci fu la prima (o pilot, come direbbero gli americani) edizione della Certificazione linguistica latina in fase sperimentale a Milano, tale iniziativa, basata solo sul volontariato di generosi docenti, professori accademici e autorità istituzionali (ricordo con gratitudine il sostegno del dott. Petralia, allora provveditore di Milano), fu segnalata al Corriere della Sera perché fosse conosciuta anche al di fuori del ristretto mondo della scuola. Io credo, infatti, che l’autoreferenzialità sia perniciosa e chi si loda si imbroda, come dice il saggio adagio. Ebbene fui, per così dire, “intervistato” dalla giornalista che, prendendo spunto da alcune mie affermazioni, produsse un titolo alquanto sensazionalistico: “Il certificato di latino che fa gola anche alle aziende”. 



La giornalista fece il suo mestiere e io, invece, fui oggetto di critiche sardoniche e icastiche. Come si legge sul Corriere.it: “Insomma, si può dire che faccia curriculum, anche agli occhi delle aziende? «Assolutamente sì — replica il docente (cioè io) — un certificato di latino può sicuramente incuriosire un datore di lavoro, proprio perché è risaputo che lo studio delle lingue classiche fornisca un’ottima base per apprendere qualsiasi altra cosa»”. 



La mia affermazione suonava, come dire?, profana e forse volgare e certamente dissonante a certi professoroni che si impegnano, negli ultimi tempi, nella didattica delle lingue classiche perché vedono sgretolarsi, sotto i colpi di scure delle riforme e dell’ignoranza sempre più diffusa degli studenti (persino chi si scrive a lettere classiche!) il loro “feudo” classicistico dove esercitano il loro baronato intellettuale e non solo… 

E perché mai, dunque, mi permetterei di dire questo da un pulpito virtuale?  Ho trovato, casualmente, l’intervista rilasciata da Giuseppe Bruno, general manager di Info Jobs, portale di ricerca lavoro specializzato per aziende e candidati, sulle pagine di repubblica.it (28 maggio 2016). La giornalista chiede al manager: “Il latino fa curriculum?”. La risposta è chiara: “In un mercato del lavoro che è molto dinamico il latino è una disciplina che per eccellenza denota capacità di ragionare e di logica. Sebbene nei sei milioni di profili richiesti dalle aziende che abbiamo analizzato non sia molto presente, resta un buon biglietto da visita. Fa capire da subito che un’azienda può investire su un candidato. È una cartina tornasole che indica le sue potenziali capacità”.



Naturalmente occorre stare cauti circa queste affermazioni, per non incorrere nella sabbie mobili di chi vede nel latino la panacea di tutti i mali o poteri taumaturgici. 

Mi conforta anche il giudizio di Guido Milanese, professore all’Università Cattolica che si può leggere sulle pagine di repubblica.it sempre nel 2016: “Conoscere il latino è un elemento spendibile in un buon curriculum professionale. Ci sono imprese, in particolare all’estero, che lo tengono in considerazione”.

Insomma, non posso fare a meno di menzionare il titolo di un trattato petrarchesco: De sui ipsius et multorum ignorantia. Ironizzare su quello che dissi due anni fa, poi confermato da Bruno e Milanese, è stata la dimostrazione di mancanza di cortesia nei miei confronti; anzi un atto di ignoranza: e dire che questi detrattori il latino lo conoscono assai bene!