Andrea Marcolongo, autrice de La lingua geniale. Nove regole per amare il greco (Laterza, 2016), è una giovane “coraggiosa”, come racchiude l’etimologia del suo nome, usato prevalentemente al maschile nell’onomastica italiana; eppure lo fa con stile, tecnicamente appreso durante i corsi di scrittura creativa presso rinomate scuole. Quando ho letto il suo libro, sono rimasto piacevolmente sorpreso sia dal suo personaggio pubblico (almeno così come appare dal suo sito) sia dalla stampa nazionale che ha pubblicizzato il suo libro. Certo, non si tratta di Canfora, Dionigi e altri accademici che tra l’altro si sono dedicati al ruolo del latino nella nostra società, ma di una giovane donna, nemmeno trentenne, fresca di studi classici e di una esperienza di ghost-writer o story-teller (chi vuole curiosare troverà molto materiale in rete). Dalla chioma bionda (zanthos si direbbe in “omerico”) come Achille, la Marcolongo ha il vantaggio di non essere insegnante (come D’Avenia con le sue incursioni nel mondo antico postate su internet), e ci offre la freschezza di un amore per la lingua antica che ha tanto fatto penare molti di noi quando eravamo ginnasiali. Andrea Marcolongo ci offre un decalogo, anzi no: solo nove regole. La decima non scritta ce la svela alla fine di questa intervista.
Lei ha pubblicato La lingua geniale. Nove regole per amare il greco. Come nasce l’idea di scrivere un libro su una lingua morta, che è rimasta un incubo nella memoria di chi ha fatto il liceo classico?
Sono solita dire che ogni storia nasconde altre storie, e La lingua geniale ne nasconde molte. Il libro nasce tre anni fa, quando scrissi alcune pagine per un ragazzo cui davo lezioni di greco per spiegare non solo a lui, ma a me stessa, una particolarità della lingua che non avevo mai capito: l’aspetto, il come e non il quando delle cose. Nel tempo varie case editrici mi avevano chiesto di scrivere un libro, ma avevo sempre rifiutato per paura. È stata, un anno fa, una fantastica agente letteraria a scovarmi, chiedendomi di mandarle “ciò che avevo nel cassetto”, stile Harry Potter. Ma nel cassetto avevo solo quel piccolo saggio. In sintesi, questo libro nasce dal p.s. ad una mail, che diceva testualmente: “mi rendo conto che il greco non sia un argomento da bestseller, ma spero di regalarle un sorriso”. E ora eccoci qui, un anno dopo, con 10 edizioni e 50mila copie in tre mesi!
Scriveva Bruno Vespa: “La lingua greca è troppo ostica per la maggior parte degli studenti perché possano mai assaporare davvero in originale i versi di Omero, i dialoghi di Platone, le commedie di Aristofane, le favole di Esopo; (…) sostituire lo studio della lingua greca con quello di una lingua moderna può essere soltanto di giovamento ai nostri ragazzi. (…) La scuola deve aggiornarsi e Omero non ce ne vorrà se lo studiamo solo nelle splendide traduzioni disponibili”. Una tesi difesa anche da molti “esperti” di istruzione. Che ne pensa?
Sì, penso che il greco sia difficile, così come lo sono altre lingue oggi considerate più “cool”, come il cinese o l’arabo. Tuttavia il greco, come ogni lingua, non è una mera somma di regole grammaticali: una lingua, qualunque lingua, esprime un modo di vedere il mondo e di dirlo a parole. Il greco antico esprime un’irripetibile idea umana, proprio quella che leggiamo nei testi. Per questo io definisco il liceo classico una scuola da “adulti”, perché non prepara solo al greco, ma alla vita che verrà: la vita non è facile né veloce, come non lo è lo studio del greco, che insegna a pensare a chi siamo, prima che a cosa siamo.
Gli accademici Ivano Dionigi e Nicola Cardini hanno scritto due libri pubblicati nel 2016 dedicati al latino. Stiamo assistendo a un’offerta che incontra una rinnovata domanda? Come si spiega? Ha un riscontro reale nell’opinione pubblica?
Vorrei citare Virginia Woolf, che scriveva che “è al greco che torniamo quando siamo stanchi della vaghezza, e della confusione della nostra epoca”. È la ragione per cui sono tornata al greco anch’io e per cui i lettori mi leggono per passione non prettamente linguistica, bensì umana. Il mio libro è diverso da quelli dedicati al latino dei prof. Dionigi e Gardini: è un racconto del greco che unisce l’autobiografia dei miei viaggi, le storie dei miei amici, l’amore per la vita. Per questo è difficile considerarlo come un saggio convenzionale: un lettore mi ha scritto che non è una grammatica del greco, ma dell’anima. E il mio pubblico è trasversale, formato da adolescenti fino a simpatiche signore in pensione, che mi sommergono di lettere cui rispondo personalmente sempre. Nessuno mi chiede conto del greco, ma della loro vita, del loro lavoro, dei loro amori: ecco perché il greco è solo un fil rouge per parlare di un modo diverso di pensare e di dire la vita di oggi, nel 2016.
Chi sono oggi i liceali: sono veramente quelli dei romanzi di Moccia o delle serie tv come “I liceali”?
Ad oggi ho incontrato 8mila ragazzi, da Torino a Brindisi, e presto mi rimetterò in viaggio per un tour in decine di scuole d’Italia: ho deciso di vivere il successo come esperienza umana, perché le classi sono solo numeri, i ragazzi sono la vita. Ho quindi conosciuto quelli che, secondo i media, sarebbero “nativi digitali” incollati al cellulare 24 ore al giorno. Non è così: ho scoperto una generazione molto migliore della mia — i cosiddetti millennials cui era stato promesso tutto e tutto si è schiantato con la crisi economica —, una generazione che accetta la sfida del mondo adulto a 14, 15 anni, che non ha paura di alzare la mano per chiedere conto, che è fedele alle sue idee, che non si fa dire da qualcun altro “cosa” deve essere (un medico, un dentista, un marinaio), ma preferisce riflettere su “chi” vuole diventare, come uomo e come donna. E soprattutto è meno prigioniera di Facebook e affini di noi 30-40enni!
Qual è stata la molla che è scattata in lei per iscriversi al liceo classico e poi a lettere antiche?
Ho avuto un percorso scolastico molto tradizionale, e costellato da sani 3, come racconto (finalmente ridendone) nel libro. La mia stranezza e la mia ostinazione credo siano proprio cominciate in seguito ad un brutto voto: ho compreso che non avrei mai potuto capire il greco “pensando in italiano”. Ecco perché, da allora, cerco di pensare come i greci e poi dirlo, come faccio quando dico “ti amo” al duale all’uomo che amo. Dopo il liceo, in seguito alla morte di mia madre, ho preso un anno di pausa, un gap year, viaggiando per il mondo. Al ritorno, sapevo che l’unico peccato sarebbe stato tradire la mia passione, quindi mi sono iscritta alla facoltà di lettere classiche di Milano.
Scriveva Oscar Wilde mentre era carcerato e leggeva i Vangeli in lingua originale: “Tornare al greco è come entrare in un giardino di gigli venendo da una casa buia e angusta”. Potrebbe creare per noi un’immagine narrativa, poetica, evocativa per “invogliare” a farlo chi, avendo fatto il liceo classico, non apre più un testo greco da tanti anni e ora fa tutt’altro nella vita?
Tornare al greco, direi, è come tornare in un’isola in cui non siamo mai stati, ma di cui proviamo un’inconsapevole nostalgia. Abbiamo voglia di tornare a casa, sempre, dopo un lungo viaggio. Ecco, il greco è il mare. E i testi greci sono la nave: è bellissima, ferma nel porto, ma non è fatta per questo. È fatta per partire per poi tornare ancora, affrontando tutti i rischi del mare aperto, che non sempre è calmo e tranquillo.
Lei è una scrittrice, e i greci sono stati grandi narratori: qual è il personaggio della produzione narrativa della Grecia antica che secondo lei è di più struggente modernità?
Questa è una domanda difficile, perché sono certa che oggi nei testi greci leggiamo noi stessi, ciò di cui abbiamo bisogno come esseri umani nel 2017. Citerei la Medea di Euripide per parlare di stranieri e di xenofobia (parola non greca, ma coniata su base greca da noi moderni), un’orazione di Demostene per parlare della pretesa logica della politica più ampia di un tweet, l’Odissea per il nostro bisogno umano di storie che raccontino il mondo.
Viene messo in risalto che è lei è stata ghost-writer di Matteo Renzi. A me come alla maggioranza dei lettori viene in mente “L’uomo nell’ombra” (The Ghost Writer), un film diretto da Roman Polanski nel 2010. Cos’è effettivamente un ghost-writer? Perché ha fatto questa scelta? Come è maturata in lei?
In realtà, io non ho mai svolto il lavoro di ghost-writer, bensì di storyteller, parola contemporanea per indicare l’arte di Omero: raccontare una storia che riesca a toccare le corde umane di un pubblico trasmettendo una visione del mondo. Per questo Iliade e Odissea non sono solo la storia del rapimento di Elena e della guerra di Troia, ma un vero manifesto della grecità, raccontando i valori (il modo di bere il vino, di onorare gli dei, di seppellire i morti) di un intero popolo. Ho scelto questo lavoro per passione portando il greco sempre con me. Ma ora, per dirlo in greco, sono il perfetto, cioè il risultato, di tutti i presenti che sono stata: una scrittrice!
Quale può essere il valore aggiunto per chi ha una formazione classica nel mercato del lavoro di oggi?
Riguardo alle polemiche sull’utilità o meno del greco e del liceo classico, che io definisco “più antiche del greco antico”, vorrei portare l’attenzione su due aspetti quasi mai considerati. La parola “utile” rimanda ad “utente”, e i ragazzi non lo sono, sono esseri umani in formazione in un periodo delicato come l’adolescenza. Inoltre, ogni dibattito verte sul futuro (aspetto che il greco non aveva!) professionale, senza considerare cosa accade mentre si studia il greco. Nel mio libro ne parlo: il greco apre la mente, ma verso l’età adulta, ovvero insegna a vivere, da ragazzi (non dimentichiamoci che al liceo classico si vive qualcosa di molto più complicato del greco, ovvero l’adolescenza!), tutta le sfumature delle emozioni che si vivranno poi da grandi. Fallire davanti ad una versione non è semplice, fallire dopo dieci versioni e non mollare è difficilissimo. Recuperare e saper gioire della fatica che ha comportato non è altrettanto semplice. Ma un giorno ci troveremo davanti ai compiti in classe, non del liceo, ma della vita: il greco insegna ad andare sotto la superficie delle cose, di noi stessi e della nostra consapevolezza umana. Chi ha fatto il liceo classico non si licenzierà al primo rimproverò del suo capo, una volta nel mondo del lavoro, né lascerà il suo innamorato alla prima discussione su chi deve passare l’aspirapolvere (come nel mio caso!).
Insomma, qual è la decima regola (non scritta) per imparare e amare la lingua greca?
La volontà di non tradire se stessi, mai. Questo ci insegnano i greci con le loro stranezze e la loro lingua umana: la maggior parte delle particolarità che racconto nel libro non erano obbligatorie “per grammatica”, ma dipendevano dalla libertà del parlante di esprimere i propri desideri, il proprio tempo, il proprio amore. La decima regola è di dire sempre, senza avere paura, mai. E che non importa essere perfetti, importa solo essere noi stessi.