Appare davvero apocalittico l’orizzonte che emerge dalla lettura dell’articolo “L’abbandono della scuola” a firma Ernesto Galli della Loggia sul Corriere della Sera (lunedì 16 gennaio 2017).
L’interessante excursus storico presenta in verità un quadro lucido e realista delle tappe salienti che hanno segnato l’intero percorso della scuola italiana dal suo nascere — appena dopo l’unità — fino al suo attuale “inabissamento nel negativo”.
Responsabile di tale sfascio sarebbe — sostiene Galli della Loggia — la politica: è stata la politica ad aver abbandonato la scuola! Così come fu la politica ad essersene assunta in toto l’onere quando, a fine ‘800, per “decisione politica” appunto (e non culturale o educativa) nacque la scuola pubblica, frutto di quelle élite protagoniste delle rivoluzioni liberali, unanimi nello stabilire che l’egemonia in campo educativo dovesse passare dalla Chiesa cattolica nelle mani del nuovo Stato finalmente abilitato al compito di istruire i nuovi cittadini.
L’autore sviluppa la sua tesi individuando i passaggi cruciali di questo percorso che — a suo giudizio — ha portato al progressivo, inesorabile sbriciolamento dell'”edificio istruzione”. Condannata oggi ad essere “dispensatrice di saperi anziché di cultura”, la scuola — conclude Galli della Loggia — vive ormai nella triste, ma non tanto remota prospettiva di dover sostituire al corpo docente l’arma più funzionale del computer.
Alla fine del paginone, che si legge d’un fiato, sorge prepotente la domanda: “E quindi? Ci rassegniamo anche noi a questo abisso di negatività perché incapaci di arginarne le conseguenze? Se il cuore dell’uomo, irriducibile, continua a battere, ciò significa che esso non rinuncia alla sua strutturale esigenza di senso, pur consapevole che non esistono ricette preconfezionate in grado di rimediare ad un panorama tanto buio.
Non credo comunque di esagerare nel dire che l’articolo di Galli della Loggia risulta quanto meno parziale.
Quello da lui descritto non è infatti l’unico orizzonte nel quale si è mossa e si muove la scuola italiana. Perché trascurare ad esempio l’esperienza della scuola libera che, se percentualmente meno numerosa rispetto alla scuola di Stato, rappresenta tuttavia un alto livello qualitativo riconosciuto anche da recenti statistiche. Perché non non fare riferimento al nutrito numero di associazioni e movimenti che nel corso degli anni hanno saputo aggregare docenti valorizzandone e promuovendone la professionalità con l’obiettivo di “produrre” cultura e non certo di “dispensare saperi”. Ma più ancora: perché non riconoscere il prezioso contributo fornito dalla recente immissione in ruolo di tutti quei docenti “anonimi” approdati all’universo della scuola con curiosità ed entusiasmo quasi a ridare fiato e speranza alla “vecchia” generazione dei quasi pensionati a vita.
In un volume di recente pubblicazione a cura di G. Vittadini, Far crescere la persona. La scuola di fronte al mondo che cambia, edito dalla Fondazione per la Sussidiarietà, vengono citati, documentandoli, fatti! Non nega certo il curatore che “la tendenza sempre più spiccata sia quella di trasformare i sistemi scolastici in pratiche meccaniche e formali”; non tralascia tuttavia di aggiungere che “il primo dei cambiamenti a rendersi necessario sia quello della prassi pedagogica”. “Non siamo comunque al punto zero: esistono nel nostro Paese piccole, ma significative esperienze in merito”.
Gocce nell’oceano? Può darsi. Eppure dimostrano come sia possibile credere ancora in una novità, oltre che viverla: come ho già avuto l’opportunità di dire, a me è successo, insieme a molti dei miei colleghi ed alunni. Non siamo rimasti schiacciati dal fatto che la politica ci avesse abbandonati. E anche se la responsabilità di una politica spesso dissennata grava ancor oggi sulla scuola italiana, il degrado antropologico che quotidianamente ci assedia può trasformarsi nella drammatica ma entusiasmante sfida che sollecita ciascuno a dire “io” con verità di fronte a se stesso e al mondo.