Il recente incrociarsi del tragico assassinio di due genitori nel Ferrarese da parte del figlio e delle proteste per le vistose distorsioni dei diritti dei docenti (a scapito di quelli degli studenti) nonché la denuncia dell’indebolimento della funzione identitaria della scuola hanno suggerito importanti riflessioni (Susanna Tamaro, Antonio Polito, Ernesto Galli della Loggia) su quella che, senza scorciatoie, questi autori sono stati concordi nel definire l’emergenza educativa del nostro tempo.
Il ricorso all’espressione suggerita da Benedetto XVI merita di essere sottolineata. Esso indica infatti nell’urgenza educativa una questione nazionale, tematica finora spesso vista come una preoccupazione soprattutto dei cattolici. Alla presa d’atto di una condizione emergenziale è stata spesso anteposta, come è noto, in molta parte dell’intellettualità liberal una sorta di benevola presa d’atto dei nuovi stili di vita giovanili e il compiacimento che la parola “educazione” (troppo forte per un mondo dai pallidi ideali) cominciasse a uscire dal vocabolario consueto e venisse sostituita dall’espressione “formazione”, più neutra, con meno regole, più plastica e flessibile.
Non sono mancate in passato anche alcune coraggiose voci laiche in controtendenza (Galimberti, Israel), non abbastanza forti, tuttavia, da poter orientare in senso inverso quegli ambienti buonisti ossessionati che si possa sfiorare, anche a solo a parole, la sfera dell’autonomia personale dei ragazzi. Tutto andrebbe concesso — così pensano molti presunti maestri — perché non ci sarebbe più bisogno dell’adulto che orienta e guida. Basterebbero le esperienze di volta in volta compiute dai giovani per renderli “liberi”. Il nomadismo esperienziale sarebbe più utile ed efficace del viaggio pedagogico.
Qualche breve annotazione, dunque, sugli articoli di questi giorni che sembrano indicare una inversione di tendenza.
La prima riguarda il riconoscimento che il problema educativo comincia dagli adulti, come indica Polito. Il narcisismo cosmico nel quale essi sono spesso immersi impedisce loro, ad esempio, di fare i padri che sono padri e non amici o fratelli. L’inosservanza di semplici regole di vita quotidiana tollerata dai genitori (e dagli insegnanti) induce i rispettivi figli ed allievi a ritenere che tutto sia possibile e dovuto. L’incapacità di educare la volontà dei ragazzi evitando loro qualsiasi difficoltà (nessun compito tra sabato e domenica, nessuna interrogazione al lunedì, scarsa vigilanza sul tempo trascorso fuori casa, paghette erogate come piccoli stipendi, ecc.) veicola una falsa immagine del mondo adulto. Senza dire delle mamme super premurose che diventano le serve dei figli.
La mancanza dall’adulto non produce felicità e neppure orienta verso una libertà costruttiva. Bisogna avere il coraggio di riconoscere che i nostri ragazzi sono sempre più soli, infelici e tristi, incollati alla televisione o agli strumenti di comunicazione, illusoriamente socializzati perché inseriti entro qualche social network attraverso i quali si può essere “amici” senza mai incontrarsi. Ragazzi che, alla prova dei fatti, scelgono di non crescere, destinati a diventare consumatori famelici di gadget tecnologici, incapaci di aprire gli occhi sulla realtà.
La seconda osservazione riguarda il rilancio di quella che potremmo definire l'”alleanza educativa” tra scuola e famiglia. Un tempo era scontato che genitori e insegnanti parlassero una stessa lingua. Oggi non è più così e spesso — per responsabilità dell’una o dell’altra parte, secondo i casi— famiglie e docenti ragionano e si comportano come se si trovassero su sponde opposte. In questa prospettiva l’autonomia della scuola — anziché essere un ostacolo o un rischio, come teme Galli della Loggia — può rappresentare invece una straordinaria risorsa proprio per favorire l’alleanza tra scuola e famiglia. La scuola ha una grande responsabilità nell’aiutare a ripristinare un rapporto costruttivo con le famiglie e le loro aspettative, svolgendo nei loro confronti un’azione di proposta e di confronto.
In particolare la scuola potrebbe aiutare le famiglie a gestire il valore educativo delle regole e a saper anche dire “no”, a comprendere la natura propria dell’istituzione scolastica (che è essenzialmente culturale e non assistenziale) e ad avanzare conseguentemente richieste coerenti. Inutile ricordare che di fronte al comune interesse educativo lo scopo è (dovrebbe essere) quello di compiere ogni sforzo per trovare sintonie ed evitare disarmonie.
Perché questo sia possibile — terza annotazione — occorre che la scuola stessa sia “educativa” e non solo “formativa” e, dunque, una scuola con una sua identità culturale e una sua capacità di testimonianza etica. Un tempo era lo Stato espressione dei valori nazionali ad assicurare un’identità ben chiara e finalizzata e i docenti erano percepiti come figure esemplari (almeno così erano presentati all’immaginario collettivo e spessissimo così erano nella vita quotidiana). Questa fisionomia dell’insegnante è stata smontata nei decenni passati da una cultura utopica che puntava a cambiare il segno della scuola “borghese” in scuola “popolare” in senso marxista. La proletarizzazione degli insegnanti era concepita come la condizione primaria di una svolta orientata in senso radicale.
Le cose sono andate in modo diverso: oggi ci troviamo con una scuola senza identità (tanto meno quella nazionale, ritenuta desueta) e gestita da docenti socialmente deboli, senza grande prestigio e senza quell’autorevolezza un tempo garantita dal ruolo non solo sociale, ma anche culturale della scuola.
La scuola può tornare educativa costruendo non in astratto, ma attraverso la presenza di insegnanti colti (e non solo esperti tecnologi) e autenticamente adulti (rigorosi, capaci di buone relazioni), la propria identità intorno ai valori e alle regole di vita semplici e concrete. Queste norme, prima ancora di essere sancite nei documenti ufficiali, come la Costituzione, tengono insieme le nostre comunità di cui l’autonomia della scuola dovrebbe essere l’espressione: l’appartenenza a una tradizione che si evolve nel tempo, ma non perde la sua efficacia, la lealtà verso le istituzioni, l’esercizio concreto della solidarietà (che prima di impegnarsi in situazioni eccezionali consiste nel far bene quello che ordinariamente dobbiamo fare), l’esperienza del confronto di idee e opinioni che veicola anche la necessità di rispettare delle regole. Senza l’esercizio di questi valori lo Stato stesso appare qualcosa di lontano e di estraneo.