Da quando l’ho letta, c’è una frase della vicenda della bimba vittima del bullismo dei compagni al collegio San Carlo a Milano che non mi esce più dalla testa: “Le bambine non studiano, le bambine lavano i pavimenti”. Se è vera, è terribile. Poi capisco che a pronunciarla, se davvero l’hanno fatto, sono stati quattro ragazzetti di dieci anni che giocano a un gioco più grande di loro, che non sanno neanche loro quello che dicono. Ma non importa. Perché a quell’età, nei comportamenti che non giudichi, passa il sentimento che hai della vita. Il sentimento della vita che hai respirato. Si badi, non mi sogno neanche lontanamente di tirare in ballo e men che meno di incolpare i genitori di questi quattro ragazzetti. Sì, magari sono genitori assenti, in tutt’altre faccende affaccendati, i figli lasciati a tate varie. O magari no, sono genitori presenti, amorevoli e attenti, ma oggi il mondo si infila fra le mura di casa nostra in mille modi. E il mondo oggi questo predica: “Le bambine non studiano, le bambine lavano i pavimenti”.
Chissà dove l’hanno sentito, chissà chi glielo ha ripetuto. Lo sappiamo, intere civiltà si sono fondate e si fondano su questo disprezzo. Noi credevamo di essere più evoluti, noi. Noi, eredi di lotte storiche per la liberazione della donna. Noi, portabandiera dell’uguaglianza di genere. Ci scandalizza al quadrato che un episodio del genere sia avvenuto in una scuola della Milano bene, tra persone istruite. Ci scandalizza al cubo che la scuola — pare — abbia minimizzato l’episodio. Ci scandalizza perché amiamo pensare che il vaccino contro idee come queste — “le bambine non studiano, le bambine lavano i pavimenti” — sia lo studio, la scuola, l’istruzione.
Lo studio, la scuola, l’istruzione sono cose bellissime. Ma non toccano — di per sé, diciamo che possono benissimo non toccare — il cuore della persona. Possono non toccare il punto in cui si forma il sentimento che uno ha della vita. E a me sembra che al sentimento della vita che i nostri figli respirano manchi una cosa fondamentale. Manchi il senso del valore dell’altro. A me sembra che il sentimento della vita che i nostri figli respirano sia l’affermazione assoluta di sé. Non è storia di oggi. È una storia lunga. Comincia con l’affermazione dell’uomo come “divo” della cultura rinascimentale. Trova la sua consacrazione culturale con Nietzsche, il profeta dei tempi nostri, che tranquillamente scrive: “L”io’ soggioga e uccide: ruba e usa violenza. Vuole partorire il suo Dio e vedere ai suoi piedi l’intera umanità”. Incontra i suoi tristi epigoni in tante nostre case, in tanti programmi televisivi, in tutti i dibattiti via internet, dove non c’è verso di sentire parlare dell’altro se non con disprezzo (e tutti abbiamo il nostro “altro”: anche gli alfieri del “diverso” non trattano i loro avversari a fango in faccia?).
Il duro lavoro di secoli di un Dio fatto uomo per insegnare che “non c’è più né giudeo né greco, né schiavo né libero, né uomo né donna” è deriso e disprezzato. E i nostri figli respirano questa aria. Mi sta stretta la parola “bullismo”, come se i quattro ragazzetti fossero affetti da una strana malattia che adesso bisogna curare. Quelli che dicono “Le bambine non studiano, le bambine lavano i pavimenti” sono figli nostri.