Probabilmente osare una materia come fisica (come si era lungamente detto) al liceo scientifico avrebbe rappresentato un trauma che nessuno ha il coraggio di affrontare. E così anche in questo anno 2017 assistiamo al solito film: latino al liceo classico e matematica a quello scientifico; scienze umane al liceo delle scienze umane; discipline turistiche e aziendali per il turismo; tecniche professionali dei servizi commerciali per l’indirizzo servizi commerciali degli istituti professionali e via dicendo. “Nessuno ha il coraggio di dire che questo esame di maturità non serve a niente, cifre come il 99,1% di studenti promossi si commentano da sole” ha detto a ilsussidiario.net Mauro Monti, preside di lungo corso. “Al ministero ci sono dei mammut che pensano che cambiare una virgola di questo esame implichi cambiare il mondo, quando invece è il mondo che è cambiato”.
Professore, anche quest’anno tutto uguale come sempre, qual è la sua impressione?
L’esame di maturità è una sorta di totem che nessuno osa toccare, e di cui soprattutto nessuno ha il coraggio di dire che è un esame, fatto in questo modo, che non serve a niente. Continuiamo a farlo tale e quale come facciamo da vent’anni a questa parte, facendo finta che nel frattempo la scuola non sia cambiata.
Cosa avrebbe comportato ad esempio mettere fisica invece della solita matematica al liceo scientifico, una materia che non esce da decenni?
In realtà gli insegnanti sono anni che stanno preparando i loro studenti a un esame di fisica, il problema è che probabilmente al ministero ci sono dei mammut che non si riescono a mandare in pensione e che vanno avanti senza farsi domande. Questo esame è rimasto l’ultimo ossario della prima guerra mondiale.
Perché questa mentalità?
Cambiare una virgola dell’esame di maturità sembra sia cambiare il mondo quando in realtà il mondo sta cambiando e chi prepara gli esami fa finta di non accorgersene.
Inutile dare qualche colpa al nuovo ministro immagino, visto il poco tempo da cui ha assunto quel ruolo?
Direi di sì, queste cose erano già pronte da tempo, non credo sia una cosa di adesso. Purtroppo quello che viene scritto come ipotesi di cambiamento, le deleghe della 107 al governo, sono solo timidi tentativi di cambiare una cosa che non funziona.
In che senso?
Un esame che promuove il 99,1% degli studenti e che costa 150 milioni l’anno si commenta da sé, sono dati che si autocommentano.
Che svolta si immagina, e chi dovrebbe imporre una svolta?
C’è in ballo una questione di fondo, di orizzonte educativo, difficilissima da toccare soprattutto nel contesto politico attuale ed è la discussione sul valore legale del titolo di studio, quindi sul significato stesso dell’esame. Affrontare questo elemento comporterebbe modifiche costituzionali e adesso di modifiche costituzionali per i prossimi vent’anni nessuno oserà parlare più.
Tornando all’esame, quello che non si recepisce è la differenziazione dei percorsi scolastici oggi in atto, è d’accordo?
Assolutamente, i percorsi scolastici si sono molto diversificati negli ultimi anni, è in atto una alternanza che fa sì che le scuole arrivano alla maturità con percorsi diversi. La svolta coraggiosa allora sarebbe una semplificazione cioè una riduzione delle prove e la possibilità per le scuole di costruire le loro prove da sé.
Riconoscere cioè una maggiore autonomia?
Sì. Questa norma dell’unicità nazionale non corrisponde più alla realtà. Guardiamo a quello che è successo l’anno scorso, il tema su Umberto Eco, pensato solo per far parlare i giornali e non per far scrivere i ragazzi. Un tema sul significato della lingua italiana quando oggi negli istituti professionali il 60% degli studenti sono stranieri. Questo dà l’idea del fatto che chi pensa a queste prove non ha il contatto con la scuola reale.
Inoltre non ci si accorge che le scuole non sono in contatto con il mondo del lavoro e con i suoi rapidissimi cambiamenti, che ne pensa?
Infatti. L’obiezione dei professori che puntano i piedi perché non vogliono mandare i ragazzi nelle aziende è proprio “perché poi c’è l’esame” e bisogna pensare a quello. Se invece l’esame fosse costruito a partire da quello che aspetta gli studenti dopo la scuola, e non, come si dice oggi, nell’ipotesi di una riforma, allora cambierebbero molte cose. Il problema è che l’esame va costruito sul mondo del lavoro, ma chi deve fare questo? Lo deve fare la scuola, non certo il funzionario ministeriale che non sa cosa succede in Basilicata o in Lombardia. Siamo un paese lungo e diverso al suo interno. Il concetto di prova nazionale non tiene più.
(Paolo Vites)