Il decreto attuativo della legge 107/2015 in corso di valutazione in parlamento relativo alla valutazione contiene le indicazioni minimali per le prove Invalsi di italiano, matematica e inglese che da aprile 2018 verranno somministrate alle classi terze medie e quinta superiore. Fanalino di coda la lingua inglese, finora presente solo in concomitanza con la prova di fine ciclo della scuola media, e del tutto assente dalla scuola superiore, dove invece italiano e matematica vengono assegnati nelle classi seconde. Gli studenti delle attuali classi quarte, che l’anno prossimo si troveranno ad aprile a sostenere la prova Invalsi  di inglese, non hanno altro con cui paragonarsi, al momento (e nemmeno i loro docenti…) che i ricordi della prova Invalsi della terza media. In attesa dell’approvazione del decreto in Parlamento, a cui seguirà, si spera in tempi congrui, la presentazione di come sarà di fatto strutturato il test, si possono legittimamente porre alcune domande. Non saprei se al ministro o al direttore dell’Invalsi.



1. Una prima domanda è in realtà un dubbio di carattere generale. Nei suoi intenti, una prova Invalsi non valuterebbe il singolo alunno o la singola classe, ma gli apprendimenti che gli alunni, nel complesso, conseguono nelle classi e ordini scolastici di riferimento. Quello che si ricava dalle prove Invalsi dovrebbe essere una valutazione di sistema. Ma se i risultati delle prove sono obbligatoriamente inserite nel curricolo dello studente, e se ne indica la potenziale validità certificatoria per il mondo universitario (art. 5. “Le Università, sulla base della propria autonomia, possono tenere a riferimento per l’accesso ai percorsi accademici, i livelli di competenza conseguiti nelle discipline oggetto delle prove di cui al comma l.”), la prova Invalsi non valuta più solo il sistema, ma lo studente. Tenendo conto delle polemiche sulle differenze di valutazione fra Nord e Sud all’esame di Stato, i risultati di tre prove standardizzate a livello nazionale permetterebbero una parziale comparabilità del titolo? A ciò si aspira? E se sì, una prova standardizzata di rilevazione delle conoscenze e competenze può essere lo strumento, a quanto pare unico, della validazione del processo formativo?



2. Una seconda domanda riguarda le modalità di attuazione delle prove Invalsi, che prevedono la somministrazione delle prove solo per via telematica: computer-based. Questo vuol dire certezza di postazioni individuali operative, una banda larga, o magari stretta, ma insomma la certezza di un collegamento in rete, e minimamente performante, tale da consentire il completamento della prova nei tempi stabiliti. Piano digitale in atto permettendo, si è raggiunta una copertura certa di tutto il territorio, visto che aver sostenuto le tre prove Invalsi è indispensabile per accedere all’esame di Stato? E chi la mattina di aprile 2018 non fosse in grado di effettuare gli accessi per i propri studenti? Si torna alla carta, pronta nello scatoloncino sul tavolo? 



3. Per inglese alla conclusione dell’esame di Stato del secondo ciclo (la “maturità”), non sembrerebbe possibile, e qui nasce la terza domanda; il decreto cita espressamente una prova “adattabile” che, nel linguaggio delle certificazioni linguistiche, significa una prova che si adatta, proprio perché somministrata al computer, alle risposte del singolo studente, in modo che ognuno veda certificato il livello di competenza massima che può raggiungere. Appaiono evidenti in questo caso due considerazioni. Da una parte, l’impossibilità di ripiegare sul cartaceo, che non può prevedere, se non attraverso steps graduati in più sessioni valutative, un innalzamento della prova (ma anche qui solo a salire, e solo su steps prestabiliti e non individualizzabili), e dall’altra la possibilità di certificazioni falsate da “technical malfunctioning”. Nel mondo delle lingue il Miur ha già sottoscritto da anni accordi per concorsi sia a steps progressivi su base cartacea, che computer-based, e che incorrono nelle due problematiche qui evidenziate. Come garantire la somministrazione della prova in tutte le scuole?

4. Una quarta domanda riguarda il formato della prova Invalsi di inglese sempre alla maturità, la new entry, e sulla quale la curiosità femminile (noi prof di inglese, si sa, siam quasi tutte donne, ci perdonerete…) si accanisce: la prova è conforme ai livelli del Common European Framework for Foreign Languages, e si fa riferimento alle Linee nazionali, una delle poche cose chiarissime di tali indicazioni (che sono le stesse ovunque) è il livello di competenza linguistica minima per lo studente in uscita dalla scuola secondaria: B2. E la prova, si dice, deve verificare le “abilità di comprensione e uso della lingua” (cit.); è quindi prevedibile una reading and comprehension con domande a multiple open cloze su use of English, modellata su quella della terza media, ma di livello B2? Ma che valore avrebbe una prova di certificazione della competenza linguistica che sia inferiore alla certificazione linguistica First, Cae, Ielts (sempre più richiesta) o Toefl, che prevedono tutte e quattro le abilità, e secondo format di items (le domande) che si sono fortemente affinate? Si tratti di aspetti tecnici, ma se si vuole ambire a creare una prova nazionale standardizzata, non si può trascurare affatto la dimensione tecnica.

5. Questo porta alla penultima domanda: chi saranno gli esperti incaricati della redazione delle prove Invalsi di inglese alla maturità? E’ prevedibile una partnership con il mondo accademico, o con quello degli enti certificatori, e se sì, non è ragionevole ritenere che ne usciranno prove diverse? L’ipotesi di una collaborazione con i docenti, ovviamente, è da escludersi; una delle ragioni della estromissione delle prove Invalsi dall’esame di terza media è proprio la diversa natura dell’atto valutativo del docente e dell’Invalsi ( se non fosse per quella domanda numero uno, ovviamente).

6. L’ultima domanda nasce dalla prassi. Le Indicazioni nazionali parlano di B2 e di un percorso di lingua e cultura inglese che formerebbe Indipendent Users, ma nella scuola italiana quel che accade è spesso diverso. Le certificazioni linguistiche, se offerte, sono estranee al percorso didattico ordinario, e affidate allo specialista, mentre il docente segue i rassicuranti binari di grammatica (e non per funzioni o nozioni) e letteratura nei percorsi liceali, e meno grammatica e un po’ di Esp in tecnici e professionali. Grazie al cielo, del Clil se ne devono occupare i colleghi delle altre discipline. Il torto qui fatto alle colleghe che non si riconosceranno in questa descrizione del loro lavoro è evidente, ma rimane la domanda: la prova Invalsi di inglese non risulterà molto, ma molto distante dalla prassi, producendo risultati fortemente negativi? Pur nella parzialità della sua natura? Che validità hanno delle misurazioni che siano a priori fortemente inficiate dall’inadeguatezza degli strumenti di misurazione, data la prassi? Anche se lo scopo fosse quello di rilevare l’inadeguatezza della prassi? Non dovrebbe essere buona regola dell’Invalsi quella che è la buona regola di un docente, ideare una prova che misura quanto accaduto in classe, pur a partire da obiettivi definiti in partenza? Anche se la classe è l’Italia?