In un video-messaggio, la ministra Fedeli annuncia coram populo le materie della seconda prova dell’esame di Stato per l’a.s. 2016-2017: è un rito ormai collettivo, come anche i pronostici che ci saranno sulle tracce della prima prova di italiano. Sin dai tempi della prima repubblica, quando c’erano unicamente ministri al Miur genuinamente democristiani, dei tempi, insomma, in cui le sperimentazioni duravano almeno trent’anni (basta pensare alla vecchia maturità con un solo commissario interno, abolita negli anni Novanta). Adesso le riforme sono velocissime come i polpastrelli dei nativi digitali su smartphone, spesso per trovare la traduzione della versione appena data dalla docente in classe.



Ma che cosa potranno mai tradurre i liceali nella famigerata seconda prova di latino?Ancora, tra mondo accademico, scuola e istituzione, si discute sul format della seconda prova per la maturità classica, quando monta il dibattito sulla riforma dell’esame, forse attuabile già dal prossimo anno, con l’abolizione quasi certa della terza prova (il quizzone) e l’invasione della “invalsizzazione” con una fantasmagorica prova computer-based (chiedo venia del brutto neologismo che rievocherà ai molti colleghi l’incubo della tabulazione delle risposte di ogni singolo alunno dentro i pochi computer nella scuola….). 



Sono incappato per caso nella storia di un mature student, Girolamo Amaseo, che nel 1493 scappò di casa, da Padova, e si recò a Firenze, dove frequentò, per imparare il greco, la scuola di Varino Favorino Camerte, un allievo del Poliziano. L’Amaseo descrisse la sua esperienza in una lettera al fratello Gregorio che costituisce uno dei più interessanti documenti sull’insegnamento del greco nel Rinascimento. A quei tempi gli studenti incominciavano a leggere, a prendere note e a fare il riassunto sui testi elementari cioè sulla grammatica di Lascaris, un dotto bizantino scappato in Occidente dopo la caduta di Costantinopoli. Per praticare il greco scritto, Girolamo copiava (excribere) parti del Pluto di Aristofane, un esercizio meno facile di quel che sembra considerando la quantità di abbreviazioni e legature presenti nei manoscritti e nelle prime edizioni a stampa. 



La classe di Girolamo era composta da sedici studenti: un poeta di cinquant’anni, uomini di trenta e quarant’anni, ragazzi e giovani (iuniores… ephebi). Qualcuno di loro, come lo stesso Girolamo, proveniva da altre città. Oltre a studiare sodo, i discenti dovevano affrontare problemi pratici: vitto e alloggio costosi e pessimi, coabitazione con altre persone e mancanza di arredamento nelle stanze. Ogni giorno, Varino leggeva trenta versi dell’Odissea al mattino, circa venti versi del Pluto di Aristofane nel pomeriggio e quaranta versi dell’Iliade alla sera. 

Certo, i tempi ora sono cambiati: c’è la crisi non solo economica, ma anche dell’istruzione classica: ci si inventa mille modi per fare marketing dello studio delle lingue classiche come olimpiadi, certificazioni, certamina, notti bianche di licei, open-day; con un aumento di saggi sulle lingue classiche nell’ultimo anno. Bisogna ritrovare, in qualche modo, la passione e l’amore per i classici (basterebbe un briciolo rispetto a quanto emerge dal racconto dell’Amaseo), cioè accendere nei giovani discenti la curiosità di imparare e la voglia di approfondire, andando oltre la superficialità: forse questa è una delle grandi lezioni del mondo antico all’uomo contemporaneo, che l’umanesimo fece proprio.

Che cosa ci sarà  dunque all’esame di maturità: quale autore uscirà dal cilindro del prestigiatore? Forse, come nel 1994, un novello Macrobio, autore tardoantico che nessuno aveva mai sentito nominare e a cui si dedicavano, prima del battesimo dei maturandi, appena poche righe nelle storie della letteratura latina? Oppure autori più “classici”, che al liceo classico, assai tradizionalista per tanti versi, significa “scolastici”?

Nel 1893, il ministro dell’Istruzione Martini istituì una commissione per riordinare lo studio del latino nei ginnasi e licei, di cui fu nominato relatore Giovanni Pascoli, che non era ancora diventato professore universitario. Sono famose le parole di Giovanni Pascoli, considerato l’ultimo poeta dell’Ottocento e il primo nel senso moderno: “Anche nei Licei, in qualche Liceo, per lo meno, la grammatica si stende come un’ombra sui fiori immortali del pensiero antico e li aduggia. Il giovane esce, come può, dal Liceo e getta i libri: Virgilio, Orazio, Livio, Tacito! de’ quali ogni linea, si può dire, nascondeva un laccio grammaticale e costò uno sforzo e provocò uno sbadiglio. E le famiglie, che condussero per mano il fanciullo alla nostra scuola, senza fede nell’umanità de’ nostri studi, con una specie d’obbedienza dispettosa e riottosa alla legge per loro assurda, che segna sì lunga e aspra via per giungere al titolo e alla posizione, le famiglie assistono sovente inerti all’inerzia, malcontente giustificano il malcontento del fanciullo e giovinetto che perde il tempo con noi”.

Ecco, l’augurio che mi faccio come docente, che immagino condiviso anche da tutti i colleghi, è che i nostri maturandi vedano la seconda prova di latino (cioè la traduzione di una versione) non come una perdita di tempo, ma come la sfida in cui misurarsi con gli autori antichi, che ci possono parlare ancora oggi perché hanno cose da dire vere e importanti. Auguriamoci pure che il misterioso tecnocrate al Miur che sceglie le versioni punti il dito su un testo “fattibile”, non come la versione, trabocchetto e rompicapo, di greco di Aristotele uscita qualche anno fa: se lo ricordano bene — purtroppo — i docenti e anche i ragazzi che fecero la maturità in quell’anno.