Il tema del miglioramento rappresenta uno dei motivi più interessanti e stimolanti dell’odierna realtà scolastica. Nonostante il silenziatore ministeriale che negli ultimi mesi ne accompagna le sorti, esso costituisce ormai un nodo ineludibile nella vita delle scuole. Si tratta della conseguenza, per un verso, dell’accresciuta sensibilità verso la qualità dell’istruzione sollecitata dalle periodiche valutazioni e, per altro verso, dell’attuazione di quanto previsto dal Regolamento sul Sistema nazionale di valutazione in materia di istruzione e formazione (DM 80/2013). 



Questo provvedimento — una delle iniziative più interessanti degli ultimi decenni —, come è noto, ha posto il miglioramento scolastico al centro delle azioni necessarie per assicurare una formazione scolastica sempre più efficace e incisiva. Tali processi coinvolgono inevitabilmente l’autonomia delle scuole: nessun istituto può pensare che esso si compia soltanto attraverso azioni politiche e finanziarie gestite dai vertici ministeriali. Non ci può essere miglioramento, in altre parole, se le scuole non lo assumono come esigenza vitale.  



La nozione di miglioramento scolastico arriva da lontano ed ha una duplice origine. La prima — anche in ordine di tempo — è connessa allo sviluppo delle valutazioni internazionali sui livelli di apprendimento che, a loro volta, sono intrecciate all’emergere di una cultura scolastica e pedagogica improntata al principio socio-pedagogico della school effectiveness. Ne sono l’antefatto la pubblicazione di alcuni importanti studi tra gli anni 60 e l’inizio degli anni 70 sull’efficacia/inefficacia scolastica. Secondo queste ricerche (vedi in particolare quelle ormai “classiche” di Coleman e Jencks che hanno fatte da battistrada a numerose altre) la scuola frequentata da uno studente aveva scarsa incidenza sui risultati educativi in ??confronto a fattori quali la dotazione intellettuale, l’origine familiare e lo status economico sociale. 



L’interrogativo che si aprì tra gli studiosi e i decisori politici può essere così sintetizzato: quali dovevano essere le caratteristiche della scuola perché le notevoli risorse destinate all’istruzione facessero sentire il loro effetto positivo in generale e specialmente sulla parte della popolazione più fragile? L’esigenza di un monitoraggio dei sistemi scolastici si tradusse in un primo tempo nella messa a punto di indagini volte a saggiare comparativamente l’efficacia dell’insegnamento. Successive valutazioni — in particolare quelle del progetto Ocse-Pisa — hanno avuto importanti conseguenze, mettendo a nudo non soltanto le notevoli differenze tra i diversi sistemi scolastici nazionali, ma anche i rilevanti scarti presenti all’interno dei medesimi sistemi scolastici. 

Le riflessioni seguite alla presa d’atto degli esiti valutativi hanno spinto in molti casi i responsabili scolastici (governi centrali e locali, secondo le diverse tradizioni nazionali) ad assumere iniziative per colmare i limiti lamentati. Alle aspettative segnalate dalla school effectiveness si sono affiancate perciò le iniziative della school improvement: attraverso quali iniziative è possibile migliorare le scuole? 

La seconda spinta verso il miglioramento — non slegata dalla prima, anche se con caratteristiche e motivazioni sue proprie — è connessa alla crescente domanda di qualità che, specialmente a partire dagli anni 90, l’opinione pubblica anche italiana ha cominciato a rivendicare nei servizi pubblici, sollecitando maggiore efficacia ed efficienza e la rendicontazione dell’impegno nella realizzazione degli obiettivi ad essi affidati. 

Questo è accaduto anche nella scuola. In seguito al protocollo d’intesa sottoscritto nel 1990 tra il ministero della Pubblica Istruzione e la Confindustria la cultura dell’impresa ha cominciato a proporsi come un modello valido anche per governare e migliorare il sistema dell’istruzione. Espressioni come “produttività” e “qualità” entrarono in quegli anni per la prima volta nel linguaggio legislativo scolastico (vedi il Testo unico sull’istruzione del 1994).

Un’immediata conseguenza — in un certo senso un anticipo delle attuali azioni di miglioramento — di questa svolta è la norma (legge 273/1995 sulla qualità dei servizi erogati dalle Pubbliche amministrazioni) che impose anche alle scuole l’adozione di una “Carta dei servizi”. Per la sua stesura furono fissati alcuni indicatori essenziali: il rispetto dei principi dell’uguaglianza, dell’imparzialità e regolarità, dell’accoglienza ed integrazione, del diritto di scelta, della partecipazione, dell’efficacia e trasparenza, della libertà di insegnamento. Nella Carta dovevano essere dichiarati i servizi offerti giustificati attraverso la messa a punto del Progetto educativo di istituto (il Pei, antefatto del Pof e ora del Ptof) e la predisposizione di un’adeguata programmazione educativa e didattica. 

Si andò così configurando non solo la fisionomia di un servizio teso a rendere conto all’utenza e all’opinione pubblica delle risorse impiegate e del loro efficace utilizzo, ma — per quanto in modo ancora approssimativo e spesso scarsamente compreso dalle scuole — si affermò un altro principio poi rafforzato dalla successiva scelta nel 1997 a favore dell’autonomia delle scuole. Esso può essere così presentato: la qualità dell’istruzione non è più garantita solo dalle procedure previste dall’amministrazione scolastica, ma deriva dalla capacità delle scuole di interpretare i bisogni delle persone, le attese delle famiglie e le esigenze sociali. In questo senso va letta la formula ricorrente nella letteratura scolastica tra i due secoli: “dalla scuola dello Stato alla scuola della società”.

Naturalmente — è appena il caso di rilevarlo — neppure ai tempi del centralismo più severo le scuole erano tutte eguali. Una certa omogeneità del sistema era tuttavia garantita dal rigore dei concorsi per l’assunzione del personale docente, dalla vigilanza ispettiva, dal rispetto dei programmi di insegnamento e, per le scuole si secondo grado, dagli esami di maturità. Queste caratteristiche si indeboliscono nel momento in cui si transita dalla scuola selettiva alla scuola di massa (anni 60-70) e poi alla scuola dell’autonomia (anni 90). L’impalcatura central-ministeriale non è più in grado di assicurare né qualità né omogeneità. E anche da noi, come nel resto dell’Europa, il tema della qualità e del miglioramento si affaccia sulla scena. 

(1 – continua)