Mentre leggete queste riflessioni sull’ultima bufera che ha interessato l’accademia italiana sui concorsi pubblici, non sentite forse anche voi, dal profondo del sottosuolo, questi professori bisbigliare, confabulare, tramare, decidere il destino di ogni ricercatore? Nella piena consapevolezza di quello che succede laggiù, ogni ricercatore reagisce a suo modo: c’è chi, come il più degno degli stoici, ripete tra sé e sé, come un mantra, “sopporta e trattieniti”, c’è anche chi baratta qualsiasi virtù cristiana e non, pur di essere prescelto, chi esplora sentieri anglosassoni già battuti con successo, e chi un bel giorno non tace più, denunciando la presunta ingiustizia. 



Intendiamoci, nei miei diversi anni passati come visiting professor in molti atenei italiani, vi potrei raccontare storie di “buona” università, ma queste non farebbero notizia, come non fa notizia un ospedale che ogni giorno opera per migliorare la qualità di vita dei suoi pazienti. Dopotutto, siamo sempre alla ricerca dello scandalo, della gogna mediatica, per poter commentare, con un pizzico di soddisfazione, nelle piazze e nei luoghi di lavoro: “avete visto, anche i baroni delle università sono stati beccati con le mani dentro la marmellata!”.



Al di là delle vicende giudiziarie dei presunti concorsi truccati, che farà il suo corso in uno stato di diritto, si apre una questione fondamentale: deve lo Stato vincolare con commissioni nazionali per l’abilitazione, concorsi e criteri di valutazione spesso discutibili, gli atenei nel tipo di candidato da “abilitare”, oppure no? Che male c’è a lasciare al giudizio dei “maestri”, o chiamateli pure professori ordinari di una università, la capacità o meno di operare bene nella loro istituzione?

La definizione di miglior candidato dovrebbe essere a discrezione dell’università e delle strategie ed esigenze del dipartimento. Al contrario di quello che qualcuno ci vuole fare credere, il miglior candidato non sempre coincide con il pubblicatore seriale. Quale vantaggio uno studente di economia potrebbe avere nell’ascoltare un insegnante di ragioneria che non ha mai realizzato un bilancio, o uno studente di medicina nel seguire un professore che non ha mai maneggiato un bisturi? Il dipartimento, inoltre, potrebbe aver bisogno di una bravo manager; e allora non si dovrebbe forse cercare nel candidato anche le qualità organizzative o di leadership? 



La mia tesi è che si dovrebbe lasciare piena autonomia alle università nel decidere chi impiegare. Le università devono essere giudicate per la loro produzione scientifica, capacità di insegnamento e possibilità per lo studente di trovare, in tempi brevi, un posto di lavoro nella sua area di specializzazione. Che intreccino pure trame di ogni tipo nel sottosuolo dei WhatsApp, Skype, Chat Room segrete. Se questo loro tramare porterà poi alla selezione del “peggior candidato”, un pessimo insegnante, un ricercatore senza un progetto originale, o un manager senza strategia e visione per il suo dipartimento, saranno la legge del mercato e le classifiche internazionali a punirli. Ascoltateli attentamente ancora una volta, non li udite forse anche voi, nel sottosuolo, questi “professori”, lamentarsi del calo degli iscritti e quindi dei ricavi? Quanta invidia provano nei confronti dei loro colleghi che in altre università ottengono grandi somme di denaro pubblico per fare ricerca e sviluppo, guardateli, così scontenti di quel capo del dipartimento che avevano loro stessi selezionato. Date pure a Cesare quel che è di Cesare, ovvero l’indipendenza agli atenei di poter decidere chi impiegare e con essa la responsabilità, ma guardatevi bene dal mettere  un solo euro nei dipartimenti fallimentari, quelli che hanno deciso in libertà di favorire amici, parenti o politici di turno.