Se è difficile trovare chi si dichiara contrario all’idea che le scuole possano e debbano migliorare non è invece improbabile che accanto a questa unanimità convivano anche molti equivoci. Per esempio sono diffusi e frequenti processi ben noti di autoassoluzione (“i risultati scolastici sono scadenti perché gli allievi non studiano e amano più i tablet della lavagna”, “i genitori sono assenti”, ecc.) e la convinzione che siano soprattutto gli “altri” a dover migliorare, oppure la non meno radicata idea che i buoni risultati conseguiti in scuole virtuose non siano trasferibili (“da noi non si può fare”).
L’insidia tuttavia più pericolosa è l’accettazione acritica dell’espressione “miglioramento”. Al pari della categoria pedagogica di school effectiveness anche quella di school improvement cui si accompagna non è infatti neutrale: definire cos’è il miglioramento implica infatti confrontarsi con un’idea di scuola, con le politiche e i valori etico-sociali che lo giustificano, con le diverse tipologie di professionalità docente e con gli stili di insegnamento e i comportamenti che ne conseguono.
Non è perciò sorprendente che intorno ai temi dell’efficacia e del miglioramento sia da tempo in atto (almeno dagli anni 90) un dibattito politico molto acceso conseguente al posizionamento dei sistemi scolastici del mondo occidentale nella cosiddetta “logica del mercato”, compresi quei Paesi (come, ad esempio, la Francia e l’Italia) nei quali più forte e stabile appare la tradizione central-statalista.
Al cuore di questo dibattito stanno differenti interpretazioni della nozione di “efficacia scolastica”: d’un lato essa è giustificata con il diffuso ricorso ai linguaggi propri della cultura manageriale ed organizzativa, con l’importanza attribuita alla misurazione e valutazione dei risultati mediante i test, con l’accentuata attenzione alla competenza in quanto unico sapere valido perché misurabile.
Secondo i critici queste caratteristiche starebbero oscurando alcuni dei valori forti della scuola otto-novecentesca tuttora validi come, ad esempio, l’esigenza di salvaguardare una visione di scuola come luogo di trasmissione culturale e la necessità, specie nel ciclo primario, di rispettare i tempi di crescita e i bisogni degli allievi in linea con l’insegnamento delle pedagogie attivistiche del secolo scorso (Dewey, Montessori, Decroly, Claparède). I valori etico-sociali, poi, intorno ai quali si è sviluppata la scolarizzazione generalizzata conserverebbero una forza traente per sconfiggere il rischio di relativismo valoriale e neutralismo scolastico e contrastare il prevalere del merito sull’equità.
Bastano, crediamo, questi pochi cenni per capire come l’accostamento critico alla nozione del miglioramento e il riconoscimento della sua complessità costituiscano un’esigenza primaria per evitare di farne una sorta di bandiera ideologica al servizio di una scuola nella quale il valore centrale dovrebbe essere la perfetta funzionalità sociale. Ma neppure si deve cadere nell’errore opposto e cioè quello di pensare che i diversi modi di concepire il miglioramento lo condannino in un limbo relativistico ove ciascuno si comporta secondo regole proprie.
Può essere utile ricordare che le nozioni di school effectiveness e di school improvement fecero la loro comparsa in alcuni studi ed esperienze d’avanguardia tra gli anni 80 e 90 negli Stati Uniti e nel Regno Unito per provvedere al miglioramento delle scuole più fragili frequentate da alunni socialmente deprivati. Soltanto in seguito questo approccio scolastico è stato curvato in senso funzionalistico attraverso la mediazione degli ambienti dell’Ocse contestualmente impegnati ad affermare il primato della competenza come categoria pedagogica fondante la scuola.
A questa cultura appartengono oggi le due ben note modalità con cui il miglioramento è interpretato nella vita scolastica (non solo italiana), modalità che si possono far risalire a due diverse tipologie di qualità scolastica.
Secondo l’approccio di chi — soprattutto economisti e sociologi, statistici ed esperti di misurazione — osserva la questione con una speciale attenzione al rapporto costi-benefici e alla spendibilità del “prodotto” finale, la qualità della scuola dipenderebbe soprattutto dall’efficienza dell’organizzazione scolastica fuori e dentro l’aula, dall’impiego di metodi di insegnamento collaudati non solo dall’esperienza, ma validati anche sotto il profilo sperimentale, dal ricorso a sistematici monitoraggi in modo da garantire l’efficacia dell’apprendimento, dall’impiego di pratiche meritocratiche per stimolare il senso della competizione. Migliorare la scuola vorrebbe dire potenziarne gli aspetti organizzativi, rafforzarne la dirigenza, regolare con dettagliate procedure i tempi degli apprendimenti e della loro misurazione/valutazione, raccogliere dati per tenere sotto controllo l’andamento della scuola (abbandoni, ripetenze, turn over dei docenti e dei dirigenti, provvedimenti disciplinari, confronti con scuole dello stesso tipo operanti in ambienti analoghi, ecc.).
Chi invece reputa (in prevalenza pedagogisti, psicologi ed esperti di formazione) che la qualità dipenda soprattutto dai “processi” messi in campo ritiene prioritario guardare agli insegnanti non solo come a collaudati “tecnici dell’insegnamento”, ma a professionisti capaci di creare un clima favorevole all’apprendimento, disponibili a lavorare come “comunità di pratica” e ad esercitare virtuosamente la capacità riflessiva e, pur senza trascurare le informazioni rilasciate dalle rilevazioni quantitative, pronti a valutare prima di tutto l’efficacia della loro azione didattica. Migliorare la scuola in questo caso significherebbe lavorare soprattutto sulle competenze professionali dei docenti, sul clima scolastico, sulle buone relazione con gli allievi e cioè su quei processi che possono condizionare l’esito degli apprendimenti.
Naturalmente queste due azioni così sommariamente (e forse imperfettamente) descritte che andrebbero intrecciate, sono talora vissute in forme di reciproca estraneità oppure addirittura conflittuali, generando scollamento e depotenziando le opportunità che ciascuna persegue. Ma non è difficile, per fortuna, trovare molte scuole nelle quali si assiste al duplice sforzo di dare vita a una organizzazione efficiente e, al tempo stesso, a una didattica di buon livello e a una più che apprezzabile attenzione alla qualità dei rapporti interpersonali e della comunicazione.
(2 – continua)