In questi giorni gli organi di stampa e i telegiornali riportano prime sommarie informazioni sulle proposte del Governo per la legge di bilancio, provvedimento che sta per approdare nelle aule parlamentari.

All’interno della legge saranno necessariamente previsti gli stanziamenti per i rinnovi dei contratti di lavoro del settore pubblico, bloccati da ormai otto anni e che interessano oltre tre milioni di lavoratori.



Come è noto, la Corte costituzionale, nell’udienza del 24 giugno 2015, aveva dichiarato l’illegittimità costituzionale sopravvenuta del regime di blocco della contrattazione e degli automatismi stipendiali per i pubblici dipendenti, risultante da una serie di provvedimenti normativi messi in atto a partire dal 2011. 



Nonostante questo periodo prolungato di assenza di contratti, il Governo, impegnato ad onorare l’intesa del 30 novembre 2016 con le Organizzazioni sindacali, ha stanziato per ora risorse inadeguate, se non altro rispetto alla copertura della perdita del potere d’acquisto dei salari dei dipendenti pubblici, fermo al 2010, sia pure in presenza di bassi livelli di inflazione in questi ultimi anni.

Sulla base dei dati a disposizione e di pubbliche dichiarazioni dei rappresentanti dell’esecutivo, l’aumento mensile medio dovrebbe essere di appena 85 euro lordi mensili ad addetto, comprese le aree dirigenziali.



Recentemente è stato fatto rilevare da fonti sindacali che molti sono i pubblici dipendenti che guadagnano meno di 25mila euro lordi l’anno (e tra questi il 41 per cento dei docenti e in pratica quasi tutto il personale Ata della scuola). Essi oggi incassano il bonus mensile da 80 euro concesso da Matteo Renzi in apertura di legislatura. Con l’aumento previsto, questo personale perderebbe il bonus: riceverebbe 85 euro per l’aumento in busta paga, ma ne perderebbe 80. Una beffa quindi che richiederebbe risorse aggiuntive per essere evitata. 

Si preannuncia pertanto un serrato confronto tra governo e Organizzazioni sindacali, parallelamente alla discussione sulla legge di bilancio che si avvierà, a giorni, in Parlamento, per rimediare a queste situazioni e prevedere un riconoscimento economico degno di questo nome, dopo un blocco contrattuale così lungo, riconoscendo, in particolare per il comparto scuola, il ruolo strategico che riveste questo settore per lo sviluppo del Paese.     

Va rilevato però che risultano quantomeno fuorvianti i titoli di alcuni organi di informazione che parlano di un “super aumento per i presidi” (440 euro netti mensili) contrapposto ai mensili “85 euro lordi (con beffa) ai prof “.

In questa sede è opportuno chiarire bene i termini della questione, sottolineando la diversità dei piani per non ingenerare letture che possono alimentare solo fraintendimenti, incomprensioni o, peggio, tensioni nelle scuole: ce ne sono già abbastanza, in particolare dopo l’entrata in vigore delle controverse norme della legge 107/15, anche in riferimento alle prerogative da essa assegnate al dirigente scolastico.

Infatti, proprio unicamente e grazie alla ripresa del confronto contrattuale, si dovrebbe riuscire a sanare (per il momento in parte e vedremo come) una situazione che si trascina dagli inizi degli anni 2000, quando venne concessa l’autonomia alle istituzioni scolastiche statali, all’interno di un processo di decentramento amministrativo (cosiddetti provvedimenti Bassanini) e conferita la dirigenza scolastica agli allora direttori didattici e presidi.   

In quel momento essi vennero inquadrati giuridicamente ed economicamente in una “quinta area”, in aggiunta alle già esistenti quattro aree contrattuali dirigenziali, fatto che permise ai dirigenti scolastici di raggiungere uno stipendio tabellare identico a quello degli altri dirigenti pubblici. Trattandosi però del primo contratto di ingresso nella dirigenza, essi ottennero, rispetto ad altre voci stipendiali di cui è composta la busta paga di un dirigente (retribuzione di posizione quota fissa e quota variabile, retribuzione di risultato), misure decisamente inferiori rispetto agli altri dirigenti pubblici, rinviando a tempi migliori l’equiparazione completa.

Coloro che erano in servizio nel 2001 o negli anni immediatamente successivi, poterono fruire di un riconoscimento economico in riferimento all’anzianità di servizio pregressa: la cosiddetta quota Ria (retribuzione individuale di anzianità) se già di ruolo, oppure un assegno ad personam, se ex preside incaricato. 

I dirigenti scolastici nuovi assunti, vincitori degli unici due concorsi espletati fino ad oggi, quelli del 2007 e del 2011 (che rappresentano ormai la maggioranza della categoria in servizio), invece, vennero inquadrati economicamente con i limiti sopra descritti, generando quindi un problema di perequazione interna, oltre a quello, ormai cronico, di perequazione esterna, aggravato dal blocco dei contratti pubblici che non permise di affrontare più la questione, ormai matura, in maniera decisa.  

Significativo, sin dall’avvio di questo nuovo inquadramento nel 2001, il  notevole carico di responsabilità dirigenziali del dirigente scolastico, se messo a confronto con quello, decisamente più  contenuto, dei dirigenti pubblici di seconda fascia del Miur (tanto per intenderci gli ex provveditori agli studi, oggi denominati dirigenti degli ambiti territoriali, e gli ex ispettori, oggi dirigenti tecnici) che godono di trattamenti economici accessori decisamente superiori. 

Oggi i dirigenti della pubblica amministrazione fruiscono di uno stipendio notevolmente più alto rispetto ai dirigenti scolastici: un responsabile dell’università o di un ente di ricerca (questa è la nuova area contrattuale dirigenziale nella quale sono stati collocati i dirigenti scolastici all’interno di una recente complessiva ridefinizione delle aree contrattuali pubbliche) guadagna in media annualmente euro 96.216,56, mentre un dirigente scolastico euro 57.893,28 (quindi un divario negativo pari ad euro 38.323,28).

Per adeguare la quota fissa della retribuzione di posizione dei quasi 8mila dirigenti scolastici, il Miur secondo fonti attendibili, vorrebbe istituire un fondo con 31,70 milioni per il 2018 e 95,11 milioni a decorrere dal 2019. L’adeguamento degli stipendi partirebbe da settembre 2018 e l’incremento complessivo risulterebbe di 11.899,74 euro lordi a testa, pari ad un aumento, a regime (cioè nel 2020) di circa 440 euro netti al mese. 

Detto questo, sugli organi di stampa si arriva ad affermare che “…il Governo Gentiloni, fatta propria la Buona Scuola renziana, punta sui dirigenti scolastici come guide dei singoli istituti e li ricompensa sul piano economico…”. Nulla di più propagandistico perché, come abbiamo visto, con questo provvedimento si prevederebbe solo un graduale raggiungimento, in tre anni, della misura della retribuzione di posizione quota fissa, comparabile ad altre figure dirigenziali.

Questo primo provvedimento, che effettivamente può suscitare scalpore e disappunto se confrontato con l’esigua somma destinata al personale docente e Ata, non sana affatto la questione della retribuzione dei dirigenti scolastici. 

Sarebbe auspicabile che la prossima sede contrattuale affronti anche le problematiche della retribuzione di posizione quota variabile, per avvicinarne la misura rispetto alla retribuzione di altre analoghe figure dirigenziali, e che gli stanziamenti permanenti ed una tantum previsti dalla legge 107/15 solo in parte hanno attenuato. In particolare occorre porre attenzione ai seguenti aspetti:

– il recupero della quota della Ria nel momento della cessazione dal servizio dell’interessato che confluisce (meglio dire confluiva, perché dal 2012 è stata “scippata” dal Mef) ad alimentare il fondo regionale, per essere ridistribuita ai colleghi in servizio nella retribuzione di posizione poiché si tratta di fondi contrattuali appartenenti al comparto scuola, secondo quanto stabilito nel Ccnl 2001;

– la ridotta corresponsione del Fun, compenso contrattualmente dovuto a fronte di una prestazione già resa in concomitanza con l’aumento del carico di lavoro. A seguito dei processi di dimensionamento scolastico il numero di dirigenti scolastici si è infatti progressivamente ridotto: nel 2000 erano in attività 12mila dirigenti scolastici e dal 2011 al 2013 soltanto si è passati da 10.440 a 8mila.

Occorre quindi con tutta evidenza che l’esecutivo, per far fronte alle esigenze di una adeguata retribuzione del dirigente scolastico di cui riconosce il ruolo strategico per lo sviluppo della scuola dell’autonomia, preveda l’assegnazione di risorse finanziarie aggiuntive, oltre a quelle fin qui erogate o in previsione di erogare. 

Sembra necessario che, dopo un blocco così lungo, si riavvii la contrattazione in sede Aran per la ridefinizione e l’aggiornamento del profilo di dirigente scolastico, a distanza di quasi vent’anni dall’avvio del processo di autonomia, contestualmente alla rivisitazione dell’intero articolato contrattuale. In particolare, occorrerà correggere gli attuali meccanismi relativi alla determinazione delle fasce e alla quantificazione ed erogazione della retribuzione di posizione e risultato attraverso il superamento di una gestione puramente ragionieristica da parte del Mef/Miur che ha ormai dimostrato tutti i suoi limiti, fino alle situazioni grottesche di questi ultimi anni che hanno fatto registrare un arretramento sostanziale delle retribuzioni, variabile da regione a regione. C’è necessità di una forte unità di obiettivi e strategie (mobilitazione, confronto contrattuale e, in assenza di risposte concrete, ricorso alla magistratura) da parte delle Organizzazioni sindacali di categoria e di una forte sensibilizzazione su questi temi tra i colleghi.