Caro direttore,
accompagno mio figlio all’ennesimo test alla facoltà di medicina. Questa è la seconda volta, dopo il tentativo dello scorso anno, a Tirana dopo Roma, Milano e Bari. Nella lunga attesa dell’esecuzione della prova dei 700 candidati per 70 posti, incontro nei giardini antistanti l’università torme di genitori preoccupati, che ritornano sempre sugli stessi temi nei vari crocchi che si formano: ricorsi, scorrimenti, punteggi, ingiustizie, addirittura notizie di brogli a Napoli, una cosa che, magari grazie ad un intervento della magistratura, invalidando le prove, consentirebbe a tutti di accedere al tanto agognato corso di laurea.



Mentre le prime volte ero portato a guardare gli altri ragazzi e i loro genitori come concorrenti, quasi nemici, almeno quelli che immaginavo protetti slealmente da chissà quali santi in paradiso, ora invece avverto che qualcosa è cambiato nel mio modo di guardarli. A partire dai ragazzi, da quella luce piena di speranza in tutti i loro occhi ancora un po’ adolescenti. I segni nei volti e nei loro discorsi e parole, da cui trasudano mesi di sacrifici e fatica per la preparazione di test spesso assurdi, nozionistici e inutili. Adeguati forse a selezionare personalità ossessive e da memorie portentose, ma fuori dalla realtà: mi viene in mente il personaggio autistico interpretato da Dustin Hoffman nello splendido Rain Man



Passeggiando tra i giardini dell’università e nelle stradine vicine, affollate da queste mamme e papà visibilmente ansiosi per le performance dei figli, percepisco e avverto in loro i miei stessi sentimenti e preoccupazioni e non riesco più a vederli come antagonisti per la conquista di uno spazio limitato per pochi. Quanto amore paterno e materno circonda di attenzioni queste prove per salire un primo scalino di un futuro tanto incerto, che va pur affrontato e a cui non ci si deve sottrarre. Mentre, nell’attesa che sia terminato il test, cammino tra le strade di Tirana nei pressi dell’università, tra l’aria acre per i gas di scarico di pullman e taxi (legali e illegali) che corrono nel traffico caotico, sono attratto da quattro ragazzi albanesi tra i 18 e i 20 anni che si affrettano, con zaino in spalla e buste in mano,  a prender un malandato pullman per chissà quale meta. Capisco che sono albanesi dagli abiti e dal portamento dal taglio del capelli “fuori moda” e dalle fisionomie.



Chissà dove vanno. Saranno giovani operai che cercano di raggiungere un lavoro o una promessa di lavoro e di benessere. Magari, immagino, sicuramente guarderanno i loro coetanei studenti italiani con un po’ di invidia e disprezzo, desiderando in fondo somigliar loro nel vestire, in quello stile disinvolto molto più simile ai modelli loro propinati dalle tv e dagli onnipresenti video musicali, sparati nei bar e nei pub, dove altri giovani sostano in tanti tra i tavoli all’aperto.

Mi torna in mente Pasolini e quella meravigliosa pagina “corsara” in cui esorta Gennariello a non temere di essere ridicolo, a non rinunciare a niente mentre i figli di papà gli insegnano a rinunciare a quella spontanea vitalità …vergognandosi dei suoi eventuali ricci, del roseo o bruno splendore delle sue gote, della luce degli occhi, dovuta appunto al candore della giovinezza. 

Hanno ancora senso questi pensieri di Pasolini? Un  po’ sì e un po’ no, in un mondo in cui tutto si è mischiato. Dove la preoccupazione mia e di altri papà per il futuro incerto del proprio figlio scompare abissalmente rispetto a quella disperata speranza di mamme e papà centroafricani che magari hanno venduto tutto per mandare i propri ragazzi a cercar fortuna oltre mare, rischiando la loro preziosa giovane vita.

Forza Gennariello, tieni duro… sia che le tue gote rosate e la luce dei tuoi occhi alberghino nella testa china dello studio assurdo di improbabili test, nel sudore che ti corre sul viso mentre rincorri un pullman che ti porta nel cantiere di una periferia polverosa, o in quel volto terrorizzato avvolto nella puzza di benzina di un barcone che cavalca minacciosi cavalloni marini.