Se si dà uno sguardo agli aforismi di tendenza in rete, ai post, ai tweet, ci si sente presto investiti: dalle pubblicità delle automobili ai programmi per le diete più bizzarre, lo slogan di fondo sembra essere uno, il “diritto alla felicità”. Ma non tanto come problema, né come cammino (di cui la filosofia, e gli esseri umani, si occupano da millenni…), ma come un mantra, o un bell’hashtag da aggiungere alle proprie foto. In questa maratona della felicità obbligatoria verrebbe quasi la voglia di ricavarsi un pezzetto d’infelicità: il diritto ad essere onesti, a poter “patire mancamento e vòto”, come non aveva paura di fare (e di dire) Leopardi. Insomma: se esiste il diritto alla felicità, esiste anche quello all’infelicità! (Se) questo è vero, però non è tutto. Ogni manuale di diritto guarda assieme diritti e doveri (o almeno i limiti d’ogni diritto).
Pochi giorni fa ho rincontrato un giovane amico, al secondo anno di università; alla mia domanda su come stesse andando, mi raccontava di essere dispiaciuto di sentir dire in ogni angolo che fa tutto schifo, che “lo Stato ci sotterra, si tira a campare”, persino da un suo docente del liceo, incontrato per la strada qualche giorno prima. Con una certa animosità mi diceva: “Ma come si permette di dire questo? Lui è un professore: non può dire così, non può!! Se non posso parlare dell’università con i miei professori del liceo, che sono i più vicini, con chi altro dovrei?”.
È stato bello vedere la contrarietà e il rifiuto di questo ragazzo di fronte a quel docente sconsolato, come se le sue parole avessero intaccato qualcosa di personale. In effetti è così: intaccano ciò che c’è di più grande: il desiderio, la speranza che ciò che si è scelto e si sta facendo abbia valore, senso, utilità. Ma non solo: che un ragazzo di vent’anni provi sconcerto di fronte a certe parole perché “lui è un professore”, è l’evidenza che, nonostante tutte le guerre fredde che gli studenti possono intrattenere per anni coi propri docenti, c’è come il riconoscimento che l’insegnante porta con sé qualcosa, qualcosa da dire di vero, di diverso. Forse qui sta quel delicato confine tra il diritto ed il suo limite: ciascuno — insegnanti compresi! — può esser certo desolato: ma ciò non equivale al diritto di erigere a norma (degli altri o della realtà) la propria angustia e insoddisfazione, così come un ingegnere non è tenuto a progettare male un ponte se si sente triste o gli sembra che tutto intorno a sé sia costruito male. I ponti degli insegnanti sono (quasi sempre) le parole. E “le parole sono importanti”, come diceva Nanni Moretti; dire una cosa od un’altra può fare (fa) la differenza.
Ma neppure le buone parole sono abbastanza. Nei corsi di laurea umanistici vi è una sorta di privilegio: gli studenti hanno normalmente un interesse reale per ciò che vanno ad ascoltare, e i docenti un interesse per ciò che insegnano. Eppure questo privilegio ha un rischio forse più grande che in altri studi: l’illusione che le belle cose che sentiamo o diciamo siano sufficienti. Quando qualche amico medico mi racconta la sua giornata, ho sempre un contraccolpo: uno specializzando non impara solo come si fa una sutura: è costretto ad imparare tutto: un lavoro, un metodo, un uso del tempo, uno sguardo, una posizione umana. E poiché queste cose possono impararle solo da qualcuno (non basta il libro), anche chi insegna deve comunicare tutto, spesso semplicemente con la propria presenza, in un’esperienza presente. Un ricevimento, una lezione di un corso umanistico può essere bella, importante, a volte indimenticabile. Ma insegnare (e imparare) vuol dire comunicare e scoprire sé.
Che cosa significa questo per chi ha a che fare con la filosofia o la letteratura? Guardando ad alcuni professori, mi pare di vedere in loro le tracce della stessa esperienza: sono stati “allievi” di qualcuno (quando esisteva ancora la gloriosa idea e figura del “maestro”), sono appartenuti ad una storia: di figliolanza (accademica), d’amicizia, di ricerca comune. Sembra proprio che siano stati accompagnati a diventare ciò che ora sono, imparando un certo modo di leggere i testi, un certo modo di far lezione, e forse ancor prima una certa idea di università, di educazione. Ma guardando alla gran parte delle persone che ora stanno crescendo, difficilmente si intravede una possibilità simile. A chi si può appartenere oggi? Che cosa è restituito, che cosa viene dato in cambio di quella storia da cui tanti professori sono nati, grazie alla quale sono diventati bravi? A chi si sta insegnando e consegnando quel che — necessariamente — un giorno farà qualcun altro?
Le ragioni di questo sono incorniciate spesso da nobili preoccupazioni: siccome il futuro è così incerto, siccome “lo Stato ci sotterra”, nessuno vuole (né può) rischiare di offrire troppo incanto. Questo sembra saggio, come è saggio non delegare ai giovani impegni o attività diverse da quelle strettamente legate ai loro studi. Ma come è possibile affezionarsi a qualcosa, a qualcuno, sentire il luogo in cui si è come proprio (e quindi anche studiare meglio, lavorare meglio) se vien meno la responsabilità per qualche cosa che ti viene affidato, la possibilità — per docenti e studenti — di giocarsi tutto, di rischiare, di sentire la speranza che valga ancora la pena formare qualcuno, lasciar(si) conoscere? E se domani il mondo cambiasse, avremmo imparato tutto ciò che ci serve? Saremmo pronti?
Ogni tanto, ascoltando le lamentele di qualche responsabile per il sovraccarico dei propri impegni, che si risolvono sempre in qualche titanico sforzo autonomo, verrebbe da chiedere: se anche ci fossero più prospettive di lavoro, saresti disposto a confidare in un altro, insegnandogli tutto con speciale dedizione, come all’inizio fu per te? Che cosa resiste al tempo e alla noia, alla burocrazia? Che cosa si può davvero comunicare, se non sé stessi? L’istruzione è forse il luogo in cui questa domanda può trovare la più grande soddisfazione o la più grande riduzione. E perfino consci delle scarse prospettive (per esempio universitarie), non è proprio questa la migliore occasione per rendere massimamente bello e utile ciò che nel frattempo abbiamo e possiamo fare? Se un bimbo di tre anni ti chiede di sederti accanto a lui a giocare con i Lego e dedicare tutta la tua attenzione a quel gioco, sarebbe ragionevole dire: “Meglio di no, tanto tra tre anni non giocherai più con i Lego”? Nessuno oggi può garantire niente a nessuno, è vero. Ma questa è una buona ragione per non costruire quella storia di relazioni, di vita comune e reciproca di cui l’educazione vive?
Qualche tempo fa uno studente mi ha detto: “Mancano cinque giorni all’inizio delle lezioni, e io non vedo l’ora!”. Sembrerebbe folle che un diciottenne che ha da due mesi finito gli esami di maturità frema per ricominciare a studiare. A meno che… ciò che aspetta e non vede l’ora di trovare sia qualcos’altro, dentro le lezioni che segue. Vedo studenti partecipare a seminari liberi e opzionali fuori dall’orario di lezione, “pendere dalle labbra” di qualche professore, fare lunghe file per il ricevimento per discutere un po’ assieme della propria tesi. Ogni volta, guardando, vorrei domandare: che cosa aspettate, cosa volete? Mi viene in mente un’unica risposta, che è anche la mia: tutto.
Negli occhi degli studenti vedo questo: vogliono tutto. E mi domando: è possibile custodire le loro attese, o quelle dei propri colleghi o (prim’ancora) di sé, di ciò che si desidera? Nessuno chiede di rispondere a queste attese o risolverle, ma solo di condividerle, di farsi compagnia. Nella descrizione del mio corso di laurea c’è un’espressione bellissima: “L’università non è solo un’istituzione dove si conseguono titoli accademici. È una comunità di studenti e docenti dove insieme si coltiva l’amore per il sapere”. Ogni mattina, varcando la porta della scuola o dell’università dove si lavora, bisognerebbe domandarsi se si è disposti ad edificare questo, a dare (e ricevere) tutto, e riconoscere dove e quando accade. Io sono grata di aver incontrato in questi anni qualcuno con cui imparare e vivere ogni giorno così.
Quindi basta. Dateci una parola che ci faccia vivere. Che ci faccia ridere. Oppure niente. Ciascuno cercherà la vita altrove, ma non contaminiamoci di speranze smarrite. Il tempo della scuola, dell’università, esiste: allora in questi anni — vien da dire — “tu fammi vivere”. Poi ci penserà il buon Dio, o io, o il caso. Ma fateci (facciamoci) il regalo più grande: dateci tutto, diamoci tutto. Pessoa lo ha scritto in un’ode magnifica: “Per essere grande, sii intero: […] non escludere niente di te. Sii tutto in ogni cosa. Metti quanto sei nel minimo che fai, come la luna in ogni lago tutta risplende, perché in alto vive”. Niente male come avventura.