Bocciata, senza alcuna possibilità di appello. Bocciata perché a volte lo stop di un anno significa volere bene davvero a un’alunna, darle il tempo di crescere. Bocciata non una singola studentessa, ma la scuola in generale; quella che negli ultimi anni è passata da un’istruzione ancorata al “sapere” a un’altra che privilegia il “saper fare”, e così facendo ha smarrito la sua vera natura. Le vuole troppo bene Riccardo Prando, insegnante e giornalista varesino con oltre trent’anni dietro la cattedra, per chiudere un occhio — o forse due — e concederle una facile promozione; meglio scrivere un libro Contro la scuola (La fontana di Siloe, 2017). Il titolo, già in sé provocatorio, racchiude una sorta di diario: dimenticate però le sterili lamentele, perché pagina dopo pagina emergono esperienze e giudizi concreti, arrabbiature, ma anche piacevoli sorprese regalate dagli alunni. In fondo è solo a loro che si dovrebbe guardare una volta entrati in aula, anche se troppo spesso a prevalere è altro, come spiega il sottotitolo: “Perché opporsi a un modello educativo che privilegia la burocrazia a scapito della cultura. E riduce lo studente a un numero”.



Statistiche, percentuali, parametri ai quali attenersi, poi Pon, Ptof e altri acronimi che si traducono in nuove carte e tabelle. Tutto tranne lo “studio”, che è “il vero, autentico desaparecido della scuola italiana”, come si legge in un passaggio del libro. “Di solito lo si liquida con la frase di prammatica “stendiamo un pietoso velo”, invece questa volta sono qui giusto per alzarlo, quel velo che pietoso rimane”.



Un insegnante vecchio stile, potrebbe dire qualcuno, uno che per parlare delle scuole elementari fa riferimento alla “famosa triade” imparata dalla nonna: “leggere, scrivere, far di conto”. La signora — per inciso — tra i banchi aveva passato soltanto un anno, mentre oggi nonostante l’obbligo si estenda fino quasi alla maggiore età, molte università devono fare corsi per insegnare a scrivere una tesi di laurea.

“Cari ragazzi — prosegue Prando rivolgendosi direttamente ai suoi alunni — dite quello che volete, ma questa non è più la mia scuola. Intendo: la scuola dove ho cominciato a insegnare, dove sono rimasto e mi sono trovato bene al punto che per diversi anni non mi sono quasi accorto di andare a lavorare”. Già, perché stare a contatto con gli alunni, camminare insieme a loro — “il buon insegnante non smette mai di imparare” — può essere il lavoro più bello del mondo: “È la gioia di crescere dando, o almeno cercando di dare, senso alla vita. Non c’è altro mestiere capace di offrire un orizzonte più alto, una prospettiva più vasta”.



Così ci si può commuovere per qualche minuto speso in silenzio ammirando il Monte Rosa dalla finestra dell’aula (e rileggere nei pensieri scritti dai ragazzi le parole “bellezza”, “grandezza”, “stupore”), oppure per un’alunna che scoppia a piangere in classe mentre un adulto racconta di un incontro con una donna sofferente e sconosciuta, ma capace di una tenerezza gratuita e totale. “Quella signora è mia mamma. Non avevo mai sentito parlare così bene di mia madre”.

Istanti che valgono più di tanti schemi e progetti: “Programmare non serve”, scrive l’autore. “La sorpresa è dietro l’angolo. O dentro una classe, che quando entra esplode”.

Insegnamento 2.0? No, almeno non dal punto di vista tecnologico. Tanta voglia di lasciarsi stupire, quella sì, anche quando la stanchezza o l’arrabbiatura sembrano prendere il sopravvento. E poi la capacità di sfidare gli alunni: legare le lezioni a fatti di cronaca per attrarre l’attenzione, non risparmiare neppure gli argomenti più scomodi. “Oggi un’alunna di seconda media mi ha informato che ‘per crescere bene, un bambino ha bisogno di una mamma e di un papà’. Ottima notizia, anche se non proprio originale”.

Davanti d’altronde non si hanno numeri ma persone, piccole solo per i numeri stampati sulla carta d’identità. Ridurre questo o, peggio, dimenticarlo meriterebbe sì un cinque in pagella.