È dura rintracciare una linea coerente nelle politiche scolastiche degli ultimi governi (per tacere d’altro) sulla secondaria superiore. Il ministro Profumo incaricò un gruppo di lavoro di studiare quali vantaggi e quali problemi comportasse la diminuzione di un anno della durata degli studi. Frutto di quella commissione fu un corposo dossier, che giace probabilmente dimenticato in qualche ufficio. In esso si giungeva ad una conclusione non dissimile dalla prima proposta della commissione Bertagna — di cui peraltro assai poco rimase nella riforma poi varata dall’allora ministro Moratti. 



La convergenza consisteva in due punti fondamentali: la riduzione da cinque anni a quattro delle superiori e l’aggancio, attraverso un anno ponte, al segmento terziario — università e formazione post-diploma. Il documento della commissione voluta da Profumo, coordinato da Vittorio Campione, entrava maggiormente nel dettaglio, indicando alcune condizioni tecniche e politiche per la praticabilità dell’operazione: 1) l’invarianza dimensionale dell’organico; 2) la revisione del curricolo, in direzione di una crescente orientatività del percorso. L’idea forza era che la liberazione di un cospicuo tesoro di risorse professionali dall’orario di cattedra avrebbe consentito alle scuole di promuovere una didattica più ricca e articolata. 



Il governo Renzi e relativo ministro abbandonano tutto: in campo c’è la “Buona Scuola” e la collocazione di qualche decina di migliaia di docenti per il potenziamento dell’organico. L’aumento del personale è ovviamente incompatibile con qualunque progetto di curricolo breve. Una pietra tombale, si direbbe. 

Invece no. Dopo una prova su dieci scuole, in estate il ministro Fedeli rilancia in grande stile la sperimentazione del “quadriennium felix“, decuplicando il campione: cento scuole, dal 2018-19, potranno attivare una sezione con uscita e diploma a 18 anni.



Non so se per cinico disinteresse o per pochezza politica, nessuno, in nessuna sede, si preoccupa di spiegare di che si tratta e di cercare il necessario consenso, intorno ad un progetto di lunga durata, su cui, nel corso dei prossimi anni, dovranno esprimersi più governi e, presumibilmente, maggioranze diverse. E sul quale sono destinate a sommarsi l’opposizione conservatrice contro lo “snaturamento” dei licei e la resistenza sindacale per la “salvaguardia” dei posti di lavoro. Se si continua così, l’allineamento ai 18 anni dell’uscita dalla scuola non si farà mai.

Si poteva fare meglio? Certo che si poteva ed è ancora possibile rimediare, se si corregge il tiro e si promuove una discussione — non tanto sui giornali, quanto nella scuola — portando argomenti sodi e non logore parole d’ordine (tipo “ce lo chiede l’Europa” o simili). Fra le buone ragioni certo non vi è la prospettiva della scolarità obbligatoria a 18 anni, fatta balenare come specchietto per certa sinistra d’antan, misura che non si lega affatto, come conseguenza logica, al tema della durata degli studi (e che, in sé, sarebbe peraltro una iattura).

Occorre quindi ripartire dai risultati e dalle raccomandazioni della commissione Campione.

1) La motivazione. L’anticipo del diploma ai 18 anni è un punto d’arrivo auspicabile per più di una ragione: da un lato aumenta la responsabilizzazione dei giovani, ormai maggiorenni, nel costruire il proprio profilo professionale e il proprio progetto di vita, ad un’età nella quale la costrizione del regime scolastico va ormai sempre più stretta; dall’altro consente un migliore impiego di risorse, umane e finanziarie, per rendere la didattica più rigorosa e a un tempo più orientante e personalizzata. Fare meglio in meno tempo è possibile, a patto che si dotino le scuole di maggiori strumenti e possibilità concrete per innovare in profondità le strade dell’apprendimento. In terzo luogo, l’uscita precoce porta con sé benefici complessivi, in termini sociali ed economici (si calcola che valga un punto di Pil), soprattutto nella comparazione con gli altri paesi, molti dei quali hanno da tempo adottato questo sistema. Chi è contrario, controbatte in proposito adducendo l’esempio dell’Abitur a 19 anni in Germania, dimenticando che in quel paese vi è una canalizzazione precoce, la formazione professionale è fortissima, il Gymnasium è minoritario.

2) Le condizioni. Perché l’operazione riesca e abbia un senso, il progetto deve essere comprensivo di altri aspetti concorrenti, in mancanza dei quali non soltanto sarà impossibile ottenere i consensi necessari per attuarlo, ma la sua attuazione stessa sarebbe monca e, alla fine, controproducente. Come si è già accennato, occorre assicurare che non si tratta di un tentativo malcelato di risparmiare soldi a spese dell’istruzione, ma di un’ambiziosa riallocazione delle risorse, nella direzione di un miglioramento qualitativo del sistema. In secondo luogo, va chiarito che il segmento alto del percorso può essere accorciato di un anno solo se si ridefinisce il nesso con quello che segue. In altre parole, anche sul piano della comunicazione, deve passare il messaggio che non si va verso un “cinque meno uno”, ma verso un “quattro più uno”.

3) Il “quattro più uno”. Non è questo il luogo per illustrare le caratteristiche che potrebbe avere il quadriennio: a ciò dovrebbe servire la sperimentazione avviata dal Miur. Essa, tuttavia, è destinata a concludersi senza alcuna innovazione ordinamentale se nel frattempo non verrà messa in chiaro una convincente prospettiva di cosa succede dopo. E’ invece essenziale che la proposta preveda un periodo post-diploma (può essere un anno o anche solo un semestre) che colleghi il tratto terminale della scuola con l’istruzione e la formazione terziaria. 

Il documento del gruppo di lavoro del ministro Profumo auspicava che nella nuova architettura di sistema vi fosse un accordo forte soprattutto con l’università, immaginando un anno di corsi (l’analogia allora suggerita era quella con le classes préparatoires per l’ingresso nelle Grandes Ecoles francesi), istituiti, da scuole e atenei insieme, per macroambiti accademici (umanistico-linguistico, giuridico-economico-politico, professioni sanitarie, scientifico-tecnologico, ecc.), ai quali gli studenti diplomati avrebbero acceduto secondo la propria vocazione professionale e culturale. 

I corsi avrebbero dovuto prevedere un certo numero di esami, validi anche come crediti per il prosieguo del percorso accademico, nelle discipline di base e comuni di ogni ambito. Il successo conseguito in questi esami avrebbe consentito poi di entrare nel corso di studi scelto dallo studente, avendo questi già verificato su di sé e dimostrato all’esterno la sua effettiva attitudine e propensione per determinati studi, in modo assai più credibile che non sia il sistema degli attuali test d’ingresso. Tutto questo, oltre ad aiutare gli studenti a non sbagliare le proprie scelte, ridurrebbe probabilmente di molto la piaga degli abbandoni universitari nei primi due anni, ancora oggi attestati su percentuali medie intorno al 20 per cento. Discorso simile, ma di più facile attuazione, per il raccordo con altri canali della formazione terziaria, come gli Its e l’alto apprendistato, per loro natura più flessibili.

Ora di tutto ciò, o di soluzioni analoghe, non vi è traccia da nessuna parte nell’iniziativa del Miur. Già troppo spesso in passato l’improvvisazione politica, figlia dell’ urgenza di lasciare “un segno” del proprio passaggio da Viale Trastevere — che si prevede sempre breve —, ha condotto il ministro di turno a far tramontare una buona idea. Se non si corre presto ai ripari, sarà così anche questa volta.