Caro direttore,
sul cambiamento vero della scuola — da stipendificio a servizio efficace ed efficiente, fondamentale per la vita collettiva — sono svanite le ultime illusioni. Le chiamo illusioni e non speranze perché le speranze si fondano almeno su qualche avvisaglia. Mentre per la scuola, ormai da decenni, segnali o annunci di progetti e forze reali non se ne sono visti. E non se ne vedono.
Questa stagnazione non può essere solo la conseguenza di inettitudini ministeriali, burocratiche, sindacali. Ha qualcosa di più profondo. Non sono le idee che mancano, le analisi circostanziate, le valutazioni intelligenti, le proposte più o meno ardite. Sono arrivato alla conclusione che non siamo nella situazione di chi non ha le idee chiare, bensì in quella di chi non ha i sentimenti chiari.
E non è solo il mondo scolastico in questa condizione. Se lo fosse ma con un ambiente esterno determinato e con obiettivi e volontà forti basterebbe poco. Ma così non è.
Il momento che vive il nostro paese è davvero cruciale e per ora non si vedono vie d’uscita dalla paralisi interiore che ci avvince. Non abbiamo sentimenti chiari, non sappiamo davvero cosa vogliamo, non sappiamo darci mete. La veemenza politica, quando c’è, è solo di natura difensiva, rissosa e inconcludente.
Ho appena letto un articolo che parlando dell’unità d’Italia fa una piccola disamina dei testi e degli autori che operarono per formare il nuovo italiano dopo la fatidica unificazione. Ecco Manzoni con i suoi Promessi Sposi, ecco Collodi con il suo Pinocchio, ecco De Amicis con il suo Cuore, ecco Silvio Pellico con Le mie prigioni. Ecco anche il meridione con Verga ed i suoi Malavoglia e Mastro Don Gesualdo.
L’autore cita anche Gioberti ed il suo Primato morale e civile degli italiani. Gioberti lo scrisse nel 1843, circa vent’anni prima della nascita dello stato italiano. In questo scritto bellissimo, che ho riletto attentamente con grande piacere, appare con enorme rilevanza il gigantesco convitato, a volte taciturno ma non di pietra, dello scenario politico italiano. La Chiesa cattolica. Esclusa e mutilata nella prima fase del regno d’Italia, non ha mai perso il suo radicamento nel popolo italiano.
Da cento anni ormai la Chiesa non si oppone allo Stato italiano. Oggi in ogni classe delle nostre scuole c’è un insegnante di religione cattolica. E il 90 per cento dei genitori, pur estranei alla frequentazione assidua delle chiese, iscrive volontariamente i figli alla frequenza, facoltativa, dell’insegnamento religioso.
Ciò significa che nel nostro profondo, la nostra identità civile non può prescindere dalla Chiesa cattolica. Ma spesso l’attualità, con le sue caotiche e crescenti pressioni, suscita impulsi che mal si conciliano con le nostre profondità morali. E’ un dualismo spesso paralizzante. Ma anche per la Chiesa ci sono dualismi paralizzanti, penso ad esempio a quello tra efficientismo interno e adesione alle mode politiche dominanti.
Ho sempre ammirato la grande capacità organizzativa interna della Chiesa che unisce un forte decisionismo ed un’estrema duttilità in modi che sarebbero utilissimi al buon funzionamento del nostro apparato statale e della nostra scuola. Allo Stato italiano manca proprio questo, le enormi energie morali di cui la Chiesa, in apparente ma non reale declino, dispone. E invece nello Stato prevalgono l’inettitudine, la corruzione, il familismo.
Forse bisogna rivedere il rapporto Stato-Chiesa in Italia. La vecchia formula del “libera Chiesa in libero Stato” non basta più a pensare e gestire la realtà di oggi. Lo dimostra un semplice sguardo all’evidente improponibilità di una uguaglianza giuridica di tutte le religioni oggi più o meno presenti nel nostro paese. Forse anche il cittadino cattolico, liberal e perfino ultra-liberal in pubblico ed in politica e devoto in privato, non regge più. Come non regge più la figura dell’impiegato statale civicamente e sindacalmente impegnato che, quando fa il garante del servizio e dell’utente immagina potenti decisionismi e quando si pensa come dipendente oppresso mette l’opposta marcia, oggi prevalente e paralizzante, del dirittismo sindacale.
Nella scuola ormai tutti si sono rannicchiati in un atteggiamento bivalente, una somma di rassegnazione e di attesa. Nella massa confusa e attonita degli insegnanti un 10-15 per cento fa perfino più del dovuto e rimedia in parte alle carenze del non-governo ministeriale e dello sfinito potere sindacale (che oggi coincidono). Gli studenti vivacchiano, con piccoli entusiasmi alternati a costanti delusioni a cui l’abitudine li ha apparentemente e sorprendentemente ben adattati. I genitori si leccano le ferite delle crisi familiari e tutto sommato cercano di collaborare con la scuola che, in fondo, ancora stimano.
Parlo in generale, conoscendo bene anche le situazioni estreme, stressanti ed allarmanti che a volte fanno desiderare di cambiare mestiere. Ma l’attesa nel profondo di tutti c’è. Qualcosa deve avvenire, non può essere questa la situazione perenne della nostra scuola e del nostro paese. Qualcosa di vero, di semplice che investa l’insieme delle relazioni e porti finalmente un poco di brezza.