A voler paragonare, un po’ kafkianamente, l’Italia di oggi con l’Atene all’apogeo della sua aulica classicità, si entrerebbe in un vero vespaio di contraddizioni quasi anacronistiche: Aristofane si lamentava dell’enorme numero di processi celebrati nell’Atene del V secolo a.C. tanto da chiamare la città Dikaiopolis, mentre in Italia il Consiglio di Stato ribalta le sentenze del Tar e, a mio modesto avviso, il buon senso, che dovrebbe guidare chi opera e decide nel mondo nella scuola. Ma purtroppo nel Belpaese non è così. La cronaca scolastica e giudiziaria recente ci offre l’occasione per qualche riflessione: il Consiglio di Stato ha accolto l’appello degli avvocati Bonetti e Delia in base al quale chi insegna e possiede un dottorato di ricerca è abilitato di per sé (senza un’adeguata formazione). De iure et de facto, nell’ottica della divisione classica dei poteri, i giudici hanno decretato l’equivalenza del titolo di dottore, che è il più alto titolo di istruzione europeo, all’abilitazione, che si consegue — giustamente — dopo un adeguato percorso teorico e pratico per “imparare” a insegnare. Infatti, in base alla normativa vigente, si accede alla seconda fascia di istituto delle graduatorie delle scuole se si possiede l’abilitazione, cioè la “patente” per insegnare una disciplina o materia del curricolo scolastico, identificato da un codice alfanumerico.



Che cosa “si impara”, invece, durante il corso di dottorato? Si impara anzitutto a fare ricerca accademica, che è cosa assai diversa dall’insegnare: chi è dottore di ricerca non è automaticamente un dispensatore disciplinare, in quanto la didattica è cosa complessa e necessita di una serie di competenze che si acquisiscono sul campo. Ma una minimo di formazione ad hoc per i neolaureati occorre.



Lo studio legale afferma che la sentenza del Consiglio di Stato ha fatto giustizia mettendo sullo stesso piano un neolaureato ed un dottore di ricerca: “entrambi — si legge — devono fare tre prove per accedere al percorso abilitante e ciò non è tollerabile”.

Chi scrive è dottore di ricerca ed è docente abilitato e specializzato mediante la Ssis: io so che cosa significa fare un dottorato senza borsa di studio, mentre si lavora a scuola; anzi, posso dire di andare fiero perché ho potuto conquistare il posto senza appoggi di baroni e consorterie varie; taccio il numero di prove che ho dovuto sostenere: sono stato “sfortunato” a voler provare ad affrontare le prove concorsuali nell’interregno tra la chiusura della Ssis e l’istituzione del Tfa: chi non poteva abilitarsi si pigliava pure i posti di dottorato senza borsa pur di non perdere tempo!



Come si legge nella nota degli avvocati, “Il dottorato di ricerca, come è noto, è il più alto titolo di studio conseguibile in Italia come nel resto d’Europa e le azioni attualmente in corso, più che ottenere il singolo ed episodico risultato per il singolo docente, mirano a riattivare un nuovo confronto politico istituzionale che, in un’ottica di riforma del sistema, valorizzi le competenze acquisite dai dottorati non escludendoli ma anzi enfatizzando le loro caratteristiche nell’ambito dell’insegnamento scolastico”. 

Come docente non mi sono voluto legare a un professore nella scelta — libera — dell’argomento della mia tesi di dottorato: mi sono occupato della didattica delle lingue classiche. Ma qui mi sorge spontanea una domanda: “Carneade! Chi era costui?”. Egli era così sapiente nella tematica specialistica grazie a una tesi di dottorato, da saper insegnare a ragazzini della scuola media! Tanto che può saltare una formazione specifica, cioè la scuola dei professori, ed essere promosso senza esami. Ma da chi? Dal potere giudiziario, che poco ha a che fare con la pedagogia e la reale quotidianità della scuola.