Non c’è dubbio che mediante l’attenzione prestata al “prodotto” finale (l’apprendimento) e al contesto nel quale esso matura (i “processi”) si possano far intraprendere alle scuole processi migliorativi. Se vogliamo collegare miglioramento e qualità scolastica non possiamo, tuttavia, accontentarci di pratiche che sono finalizzate soprattutto a far funzionare bene la scuola (il che ovviamente è bene, ma non sufficiente). Un’azione di miglioramento non può infatti eludere di chiedersi a “cosa serve la scuola” nel momento in cui da più parti cominciano a levarsi istanze critiche se non proprio alternative sulla sua utilità, senza restare prigionieri del funzionalismo efficientistico che in questo momento domina i principali documenti internazionali su scuola e formazione.



Fino a qualche tempo fa era impensabile questo interrogativo tanto era unanimemente acquisito che attraverso la scuola ci si impadroniva del sapere necessario per la vita, si ampliava la socializzazione familiare e attraverso questa si entrava nel flusso di una tradizione. Non a caso, il confronto sulla scuola si misurava proprio su questo aspetto: quale dovesse essere l’ethos nel quale situare la formazione delle giovani generazioni, dando il resto come scontato. Chi ha vissuto nella scuola gli anni 70 e 80 conosce bene i rischi dell’ideologismo scolastico, prezzo che era tuttavia compensato dal confronto tra visioni forti e alte della funzione dell’istruzione. 



Oggi la realtà è molto diversa, perché negli ultimi decenni si è fatto strada uno stile di crescita giovanile molto meno dipendente dagli adulti (salvo quando essi sono utili a risolvere dei problemi pratici e a svolgere funzioni consolatorie) e nel contempo si sono indeboliti i quadri valoriali sostituiti dall’inseguirsi di emozioni temporanee. La scuola sembra una vecchia signora piena di buoni princìpi, ma ormai scavalcata dalla rapidità delle nozioni apprese dal web, poco appetibile perché luogo più della fatica che del piacere. Perché andare a scuola e annoiarsi quando molte cose si possono accostare quando servono e senza fatica? 



Marco Lodoli — scrittore e insegnante — ha immaginato paradossalmente (ma non troppo) che estendendo la credibilità degli strumenti digitali oltre un certo limite tra qualche tempo si potrebbe fare a meno non solo dei libri ma anche dei docenti. La sfiducia nella scuola è il primo passo verso l’ignoranza e l’ignoranza, a sua volta, è l’anticamera del declino della vita associata. 

Il miglioramento scolastico può rappresentare un’occasione unica per far compiere al dibattito un salto di qualità, dalle procedure (come migliorare il funzionamento scolastico) a una riflessione strategica cadenzata sul futuro (come salvaguardare la dimensione culturale della scuola e le sue prerogative educative). 

Possiamo pensare che una scuola solo più efficiente sia in grado di rispondere a questioni impegnative come la mitizzazione degli strumenti digitali, la tendenza alla semplificazione dei contenuti scolastici, la valorizzazione delle dimensioni non cognitive degli alunni (soft skills), la conservazione della memoria comune? Dobbiamo preoccuparci principalmente di coltivare le emozioni degli allievi oppure la scuola è anche un’opportunità per fare esercizio di razionalità e di immergersi con gli strumenti della cultura nella realtà e con questa saper stabilire un confronto positivo? Possiamo restare indifferenti di fronte alla diffusa convinzione che i libri non servono e che l’unico esercizio didattico valido è il problem solving? È pensabile che tematiche come l’equità e il merito restino confinate nei dibattiti tra specialisti?

Sono solo alcune delle questioni che interessano l’attuale mondo scolastico. Se la qualità della scuola non sarà superficialmente identificata nel funzionamento scolastico e il miglioramento saprà misurarsi con le questioni che toccano i significati profondi della vita scolastica sarà davvero colta l’opportunità per sottrarre la scuola all’idea che “non serve”. 

(3 – fine)