Ho trascorso un paio di ore con un gruppo di studenti del mio liceo dialogando su una poesia di Montale. È stato un incanto, uno di quei frequenti momenti di grazia nei quali non puoi fare a meno di riconoscere stupito il privilegio che hai a star di fronte tutti i giorni a questi giovani volti, desiderosi del vero, del bello e del buono. E tu sei lì che te li gusti, in quell’attimo senza tempo, e non devi far altro che favorire e sostenere quello sbocciare di coscienze nel vivace intrecciarsi di domande, giudizi, silenzi, interpretazioni, obiezioni. Fino all’improvvisa ultima intuizione di una ragazza rimasta in silenzio per quasi tutto il tempo, prendendo appunti: “prof, ma allora Montale vuol dire che la felicità può arrivare proprio da ciò che non ti aspetti!”. Si apre allora un universo nuovo, quello della speranza che tanto manca a questi ragazzi, stretti tra le esigenti aspettative degli adulti e le subdole attrattive della società liquida.



Infatti, ha ragione lo psichiatra Paolo Crepet quando, introducendo il suo ultimo libro a Modena (resoconto su Orizzontescuola.it), afferma che i giovani sono stressati dall’angoscia dei genitori per il loro destino — come degli insegnanti per quella del profitto — e che l’ossessione di pianificare la vita dei figli fino all’ultimo dettaglio, eliminando — o tentando di rimuovere — preventivamente ogni problema, sta producendo guasti enormi sul piano della formazione delle nuove generazioni. Crepet se la prende con gli adulti, genitori e insegnanti, incapaci e codardi nell’opporsi a questa deriva, nell’esigere dai giovani impegno serio e dedizione, nel proporre mete alte, nel dir di “no” ai capricci dei figli e nel rifiutare aiuto a chi non si impegna veramente.



Tuttavia, a mio modesto parere, la soluzione proposta a questo stato di cose, ovvero il recupero da parte degli adulti di una maggiore fermezza, sembra abbastanza problematica.

Innanzitutto, perché non si capisce bene da dove questi adulti pavidi, un po’ tiranni e ripiegati su sé stessi, dovrebbero attingere energie per questa sorta di conversione educativa, dove potrebbero reperire la forza virile invocata da Crepet. Lo stesso Crepet ammette che la maggior parte degli adulti che si rivolge a lui lo fa più che altro per sfogarsi, per cercare un conforto, non tanto perché intenda cambiare veramente modo di rapportarsi ai propri figli.



In secondo luogo, siamo proprio certi, ammesso che gli adulti ritrovino le energie necessarie, magari in modo un po’ artificiale attraverso il ricorso sistematico al sostegno psicologico, che la strada del rigore, del “faccio qualcosa per il ragazzo se il ragazzo fa qualcosa per sé” sia sufficiente? È giusto, dopo anni in cui il dono di sé dell’adulto è stato sostituito da cose, impegni, richieste più o meno sensate, ricatti, timori, proiezioni di sé, sentimentalismi, sottrarsi di nuovo alla fatica di un rapporto avanzando la richiesta, di punto in bianco, di una libertà e di una capacità di intrapresa rispetto alla realtà che i giovani sono impreparati a dare perché finora ineducati a farlo? Non si sentirebbero, per l’ennesima volta, inspiegabilmente abbandonati? Come potrebbero questi giovani, che Crepet definisce addirittura “mononeuronici”, reagire? E non perderebbero gli adulti un’altra occasione per riguadagnare — o scoprire per la prima volta magari — la propria identità di padri e madri?

Penso alla scuola, ad esempio. Il ritorno in grande alla bocciatura è il rimedio vero? A parte il fatto che nella scuola italiana si boccia eccome: basta chiederlo agli studenti dei tecnici e professionali. E poi si boccia quasi sempre “a freddo”, senza ragioni e, soprattutto, non dentro un rapporto educativo nel quale anche la battuta di arresto può essere un bene, un’occasione di crescita. Perché un conto è prendere uno schiaffo da uno che ti vuole bene, altra cosa è da un estraneo che fa le medie dei voti con la calcolatrice, che a stento ricorda il tuo nome e per il quale sei solo un problema perché metti in crisi la sua routine di docente.

La piccola esperienza raccontata aprendo queste poche note, indica forse una strada diversa, sia per i genitori (insegnanti) sia per i figli (studenti) che è quella dell’incontro, della relazione educativa, dell’accompagnarsi insieme alla scoperta della realtà, che sia una poesia di Montale o altro. Un rapporto in cui, senza stabilire condizioni preliminari, ci si spende totalmente nel presente, sul pezzo di realtà che ci è dato da vivere e da affrontare. L’adulto potrà così scoprire che la propria felicità sta nell’amare, cioè nel donare sé stesso. Proprio nel rapporto crescerà nella certezza della propria identità e, quindi, nel coraggio di accettare progressivamente la libertà del figlio che imparerà, per conto proprio, a far da sé uscendo dal suo guscio di paure e sentendosi sicuro che il bene dei suoi genitori non dipende da lui. 

Perché forse il vero coraggio consiste nell’offrire occasioni per dire di “sì” piuttosto che nel dire sempre di no. La libertà si sviluppa nell’aderire al vero, al bello, al buono. Di fronte ad un sistematico no, non cresce la libertà, ma il ribellismo. Molti adulti in affanno di oggi sono, per l’appunto, figli che ieri hanno detto basta al muro di “no” senza perché dei padri.

Un’antichissima iscrizione babilonese recita: “questa gioventù è marcia nel profondo del cuore. I giovani sono maligni e pigri, non saranno mai come la gioventù di una volta; quelli di oggi non saranno capaci di mantenere la nostra cultura”. Ora, è difficile pensare che nell’antica Babilonia i padri fossero più lassisti dei nostri e che ci fosse una generalizzata anarchia pedagogica. Eppure, ci si lamentava dei giovani anche allora. Questo perché l’educazione è roba seria e problematica da sempre, implicando il rapporto tra persone. 

Fin dall’inizio dei tempi, i figli costituiscono per gli adulti la possibilità di compiere la propria umanità e i figli hanno bisogno di adulti da seguire per crescere in virtù e conoscenza. Ma tutto questo non è privo di drammaticità, come sempre quando ci sono in gioco degli uomini.