In qualità di dirigente di scuola e, prima ancora, d’insegnante ed educatore, ritengo utile soffermarmi sui risultati di Eduscopio pubblicati il 9 novembre scorso a cura della Fondazione G. Agnelli di Torino. Eduscopio è la “classifica” delle scuole secondarie di II grado — licei e istituti tecnico-professionali — del nostro Paese, consultabile regione per regione. Una classifica che, com’è ormai ben noto, degli studenti di ogni istituto, statale o paritario, maturati tre anni prima misura gli esiti universitari e lavorativi in termini di esami sostenuti, voti ottenuti, crediti acquisiti, oppure di percentuale e stabilità di occupazione negli anni successivi. Torno sul tema in quanto Eduscopio, nato pochissimi anni fa, è tuttavia divenuto in breve tempo così popolare da essere atteso e consultato a ogni tornata specie dalle famiglie che s’interrogano a quale scuola superiore iscrivere i figli che stanno per concludere le medie.
Per incompetenza specifica, non mi azzardo proprio a entrare nel merito (e nella polemica scaturita) della piena affidabilità del metodo statistico messo a punto dal direttore della Fondazione, Andrea Gavosto, e dai suoi collaboratori. Intanto, osservo che Eduscopio è uno strumento di comparazione, come tale utile alle stesse scuole, insieme con Invalsi, a “tarare” gli effetti del lavoro didattico sugli alunni: uno strumento perciò — non l’unico e non più di questo! — di cui servirsi per stilare i cosiddetti “Rapporto di autovalutazione” e “Piano di miglioramento” cui ogni istituto scolastico per legge è tenuto.
Tutto ciò premesso, vengo quindi al punto. L’Istituto scolastico “don C. Gnocchi”, che mi onoro di dirigere, nelle graduatorie pubblicate si trova ancora una volta ai vertici della Lombardia, tanto fra i licei quanto fra gli istituti alberghieri. È un istituto paritario che nel 2018 compirà trent’anni e che in queste tre decadi, anche nel mezzo di una generale crisi italiana che ha colpito le scuole non meno dell’economia o della politica, è venuto crescendo in cifre e in qualità, sempre tenendo vivo l’impeto delle origini, fatto di passione per la realtà e il suo significato e di educazione della libertà.
Ma non si tratta di slancio emotivo o voglia di fare: qui è in gioco un metodo educativo meditato e vissuto, appreso da quel genio pedagogico che è stato e resta don Luigi Giussani, il quale ne diede la sintesi nel volumetto del ’77 dal titolo il rischio educativo. Questo abbiamo ricevuto, questo cerchiamo di consegnare, giacché il senso proprio della tradizione non è affatto l’adorazione del passato — sarebbe una caricatura e un modo reazionario d’intendere la storia —, bensì la trasmissione viva e vegeta oggi, qui, in prima persona, dei tesori di sapere e di sapienza della cultura ebraica, classica, cristiana, insomma europea, per il tramite di maestri che rischiano in proprio. E noi portiamo la responsabilità, l’autorità, la gioia di tramandarla ai nostri studenti perché a nostra volta siamo discepoli di maestri maggiori che ce l’affidano.
Da tale metodo o, se si vuole, da tale energico sguardo sulla vita e all’uomo con cui siamo stati raggiunti, sono sorte tante iniziative educative ben presto divenute intraprese scolastiche in diverse città e regioni d’Italia e, oggi, del mondo.
Non è dunque nostalgica celebrazione, la mia, di uno che, dopo quasi cinque lustri da preside alla “Fondazione Sacro Cuore” di Milano, ha raccolto a Carate Brianza la difficile eredità del dirigente fondatore, Franco Viganò. Il fatto è che, se licei paritari come questi — e altri, come lo stesso “Sacro Cuore”, la “Fondazione Grossman” pure milanese o “La Nuova Scuola” di Pesaro o la “Karis Foundation” di Rimini o il “Malpighi” di Bologna… — sono all’apice nelle rispettive regioni, si deve riconoscere che tale successo è dovuto all’essere tutti ispirati dallo stesso metodo giussaniano. Certo, ognuno con la propria storia, con accenti originali, con la propria responsabilità gestionale, attuando l’intrapresa scolastica secondo le esigenze territoriali del caso; ma tutti condividendo un metodo. Un metodo educativo che s’incarna nelle persone, costituito dall’amore alla verità come esperienza di positività del reale; dal desiderio di conoscenza del reale come esigenza di senso; dalla cura della persona singola dell’alunno; dalla relazione costruttiva che lega l’allievo e il maestro che comunica una proposta interessante per la vita.
Quando si dice “metodo” occorre esser precisi, per non scivolare in ambiguità che sono tipiche di certe parole d’ordine — vedi le “competenze” spesso contrapposte alle “conoscenze” — che prevalgono anche nelle odierne disposizioni del Miur. Nella scuola — o, meglio, in scuole come la nostra — l’educazione della persona si attua sotto forma di e in quanto cultura, ossia “coltivazione della vita umana” — di custodia dell'”umano nell’uomo”, come diceva Vasilij Grossman. La cultura, la forma con cui sono espressi i valori e il sentire di una comunità e che meglio si attua in un contesto di libera comunicazione, sollecita la maturazione della personalità e della responsabilità di ogni studente col favorire, mediante le discipline di studio, la conoscenza sistematica della realtà e lo sviluppo delle capacità razionali, affettive e relazionali.
Mi permetto di citare quanto da me scritto in un volume del 2016, Far crescere la persona, a cura di G. Vittadini: “Scopo ultimo di ogni sistema scolastico e di ogni iter formativo è la creazione di una coscienza critica. Dai greci fino ai nostri giorni, ‘critica’ è una parola centrale del pensiero… europeo, che però è ormai assunta con l’alone del preventivo sospetto tipico del positivismo e dell’illuminismo vecchio e nuovo, che hanno risignificato il termine e il concetto in chiave polemica e demolitiva di presunte certezze ricevute dalla tradizione. […] Una parola che invece fin nell’etimo — ‘distinguere, individuare, valutare’ — ravvisa il primato del logos, della ragione che lega e argomenta, e che definisce uno stile didattico che non è, né può restare, estraneo all’opera di costruzione della conoscenza quale dovrebbe attuarsi in ogni singola ora di lezione”.
Se quindi l’esigenza e il fine dell’attitudine critica è la verità dei dati e dei fatti, allora il paragone col lascito della tradizione, entro il rapporto educativo in classe, diventa la condizione di un serio esame con cui pervenire (o avvicinarsi) alla verità stessa, al sicuro (o problematico) accertamento dello stato delle cose. Allora, così seriamente provocati, vediamo gli studenti affaccendarsi, appassionarsi all’opera del loro apprendimento, che per gli alunni del “don Gnocchi” si traduce nell’assumere seriamente, in scienza e coscienza, il compito di verificare la proposta culturale non già in generale, ma appunto in ciascun contenuto didattico.
Ciò, per esempio, è ben visibile in un modo di fare matematica teso allo sviluppo dell’osservare, del definire e del ragionare dimostrativo, che muove dallo studio della geometria euclidea e che oggi va contro la tendenza dominante ad applicare le procedure meccaniche del problem solving. O, altrettanto, in un modo di affrontare la lingua che non sia mero codice dispositivo impersonale, ma preveda la libertà critica del soggetto che la usa. O in un modo di far letteratura che mette al centro il testo d’autore, in specie di Dante, per invitare e interpellare lo studente al paragone critico ed esistenziale coi significati scoperti. O, ancora, nelle scienze sperimentali, nel rilievo dato all’impianto teorico insieme con l’esperienza di laboratorio, la più frequente possibile ma non divaricata dalla ricercata consapevolezza del significato delle operazioni richieste. O, viceversa, nelle scienze umane, nel non accontentarsi della rassegna manualistica delle teorie dei sociologi, ma nell’andare a verificare sul campo che cosa materialmente vogliono dire formule quali “flussi migratorii”, “campi profughi”, “movimenti indipendentistici”. E si potrebbero fare tanti altri esempi, dal disegno tecnico alle lingue straniere alle scienze motorie… Domanda, ricerca, scoperta, connessioni, distinzioni, argomentazione, categorie di giudizio: questi i cardini logici del lavoro.
Una scuola cosiffatta — paritaria, pubblica, libera — è letteralmente per tutti, e ottiene risultati lusinghieri senza porre preclusioni all’ingresso, senza “bagni di sangue”, senza selezione in itinere dei “migliori”, bensì accogliendo e seguendo passo passo ciascun ragazzo, anche quelli fragili e sfiduciati, anche quelli che hanno effettive difficoltà di apprendimento (certificati come Bes e altri acronimi), anche i figli d’immigrati musulmani osservanti, anche i dropouts che “si ritirano” da altri istituti (statali), e che infine maturano e crescono umanamente e, perciò, intellettualmente e mettendo a frutto le fin troppo citate “competenze della personalità” (ben note come character skills e misurate dall’economista, premio Nobel del 2000, James Heckman).
Per questo non mi piace e respingo, per l’istituto che dirigo, il titolo di “scuola d’eccellenza”, poiché non seleziona nessuna élite meritocratica; degli studenti punta invece a far venir fuori il meglio di ciascuno, nei termini della certezza, della qualità e della consapevolezza, e nella valorizzazione delle inclinazioni. In tal senso, è scuola che, semmai, coltiva l’eccellenza dell’umano. Soltanto in vista di questa finalità maggiore e ultima facciamo scuola, affinché i ragazzi, che ci arrivano appena cresciuti e ne escono adulti fatti, consci di quanto grandi siano le loro doti e infinito il destino cui sono chiamati, siano pronti ad affrontare con coraggio, fiducia e professionalità il mondo, che infatti ha bisogno di persone così, dalla mente aperta e dal cuore intelligente e avventuroso. E animate dalla virtù più bella e più negletta fin dai tempi di Lutero: la speranza.
Scuole così si fanno carico e si prendono cura con leale serietà delle persone dei ragazzi, ma pure del bisogno materiale che diverse famiglie hanno di accollarsi l’iniquo gravame finanziario della retta scolastica, dovuta perché indispensabile. Il “don Gnocchi”, e non è l’unico, predispone forme di aiuto economico affinché nessuno venga escluso dalla frequenza per motivi di censo che glielo impedirebbero.
A proposito di famiglie. Il fenomeno nuovo che osservo è il desiderio vivo di tanti genitori di esser fattivamente collaborativi e, in qualche modo, alleati coprotagonisti dell’avventura didattica dei figli, che essi con sorpresa e gratitudine vedono alzarsi presto al mattino contenti e quasi impazienti di ricominciare una giornata di lezioni e di studio e di lavoro. È nuovo il crescente bisogno di appartenenza, non solo dei figli, ma dei genitori stessi, di ricevere dagl’insegnanti una compagnia che li aiuti, come si dice in Lombardia, a “tirar grandi” i loro ragazzi. E per questo voglion mettere a disposizione risorse, contatti e competenze professionali che arricchiscano la dotazione e l’offerta formativa della scuola.
Ma, infine, che cosa dire? Che cosa ritengo faccia davvero la differenza in scuole come quella che ho descritto? È la decisione di considerare la realtà degna di essere vissuta, capita, studiata, indagata, argomentata, lavorata, per il fatto stesso che essa c’è e ci siamo noi, che, unici nel creato, abbiamo ricevuto il dono inestimabile della coscienza.