Da educatore mi trovo spesso in rapporto con gente di tradizione cristiana che però fatica ad avere il gusto e lo slancio di chi vive della fede. San Giovanni Paolo II ha coniato il termine “nuova evangelizzazione” riferendola ai popoli che sono già stati evangelizzati, ma che dopo un lungo processo di secolarizzazione hanno bisogno di una ripresa profonda: come sono tante delle persone a cui sono stato consegnato.
Stiamo parlando di gente che ha sviluppato una grande umanità lungo le generazioni, come conseguenza dell’incontro con Cristo. Usando l’immagine di Giovanni di Salisbury, sono “nani sulle spalle di giganti”: gente che ha addosso una grande tradizione, un magnifico patrimonio; persone che attingono ai valori che sono stati generati, ma ormai non più — o almeno non in forma decisa e intenzionale — alla fonte che li ha originati.
Conosco e comincio a voler bene a dei giovani liceali che si sentono addosso questa tradizione. Sono appunto come dei nani sulle spalle dei giganti: ragazzi con una umanità inimmaginabile senza la tradizione che li precede. Ma spesso si sentono come dei nani con dei giganti sulle spalle. Sentono la paura, a volte indotta dagli adulti che li circondano, di sbagliare, di non essere in grado di continuare quella tradizione. Non che non sappiano quale sia la cosa giusta da fare, non che siano confusi riguardo il come muoversi, ma si sentono nella gabbia di dover fare ciò che altri già pensano per loro. Che spessissimo può essere anche la cosa giusta. Ma loro esitano a giocare la propria libertà. Sentono che la possibilità di contraddire qualcuno, di porsi in prima persona, è tolta loro. Restano solo la docilità devota o la ribellione totale.
Poi vedo anche degli adulti che hanno per loro una stima incondizionata, che guardano con stupore il bello che vive in loro, invece che fermarsi alle loro debolezze. Adulti che guardano ciò che c’è in loro più che ciò che manca. Quando i giovani si sentono addosso questa stima piena di ammirazione per la misteriosità presente in loro, questa fiducia incondizionata nei loro confronti, questa scommessa sulla loro libertà, a cui non importa tanto il fatto che sbaglino, allora li si vede partire spediti, li si vede presto fiorire.
Un vero educatore porta uno sguardo liberatorio in un contesto di sguardo moralizzante. Lo vediamo nei gesti di Papa Francesco. Lo vediamo nello stesso Gesù. Zaccheo cambia non perché qualcuno gli dice che deve cambiare. Questo già lo dicevano tanti, ma non giovava nulla. Tutto diventa nuovo quando qualcuno lo guarda con stima totale, invitandolo semplicemente a un rapporto personale.
Ma io, educatore, come faccio a reggere davanti alle debolezze, agli errori dei ragazzi? Solo se io sono libero, se io stesso ho una consistenza che non mi fa dipendente dall’esito di una risposta positiva. Poche settimane fa sono venuti a trovarmi a scuola due universitari per dirmi in sostanza la stessa cosa: “Io ho passato sei anni in questo liceo, essendo stato bocciato; vengo a dire che io devo tutto a questa scuola”. Sembrano affermazioni contraddittorie. Invece ciò che vale nella vita è un luogo, una proposta, che tiene, salda e serena anche davanti al fallimento. Ecco, soltanto l’educatore che è talmente saldo, nella sua certezza, da non dipendere dalla sua performance educativa, può a sua volta accompagnare senza condizioni chi non risponde alle magari più giuste aspettative o chi è in quel momento fragile. Solo chi, in forza di una vita di fede, scopre una tenerezza e una misericordia verso sé stesso può a sua volta avere quella stima incondizionata che libera l’altro.