L’annuale Convention scuola dell’associazione Diesse ha visto la presenza a Bologna (4-5 novembre) di settecento insegnanti impegnati in fitti dialoghi, lavori seminariali, botteghe e quant’altro. Lo scopo di questo appuntamento? Era tutto nel titolo che campeggiava sullo sfondo del salone delle riunioni plenarie, nei dépliant d’invito, nei programmi stampati: “Il tempo della persona. Da una storia il cambiamento“. Le persone cambiano, ok. Magari invecchiano e si ingrigiscono, ok. Ma non si intendeva questo, ovviamente. Si intendeva dire che una coscienza profonda di sé, di quello che si è umanamente e di quello che si è ricevuto come senso totale della vita cambia la percezione dell’ambiente, del proprio rapporto con gli alunni, della scuola. 



Le relazioni d’apertura (Di Martino; Mortari) hanno bene messo in evidenza che la scuola è un ambito del tutto particolare. Forse l’unico rimasto sulla faccia della terra in cui si possono compiere alcune operazioni fondamentali per l’uomo come identificarsi rispetto al nullificante effetto della società liquida e globale. Imparare non è solo apprendere, ma anche comprendere sé. E questo vale per ogni età e livello di scuola. Eppure nei giorni nostri la scuola attraversa profonde mutazioni antropologiche e strutturali che la possono mettere in discussione come luogo di trasmissione di culture. Gli strumenti che si usano (nuove tecnologie) cambiano chi li usa. I tempi in cui dopo le lezioni insegnanti e alunni si dedicano gli uni agli altri (come in alcuni esempi citati) sono spesso ridotti, contingentati. I genitori sono diventati i sindacalisti dei figli perché ne patiscono taluni insuccessi. Le difficoltà in cui docenti e presidi si trovano ad operare divengono spesso occasione di lamento. 



Ma non qui. Non alla Convention. Circolava infatti uno spirito nuovo (non hegeliano), la coscienza di una sfida da accogliere, la spinta a rilanciare e partire al contrattacco. Le relazioni fondamentali e poi le testimonianze di molti che lavorano tra i banchi nelle situazioni più disparate, a contatto con alunni in difficoltà o in classi di sei, sette nazionalità diverse, hanno fatto perno sul tema dell’incontro. Nella scuola si può incontrare l’altro, guardarlo in faccia, comprenderlo nella sua integralità di corpo e di anima, di materialità e di spiritualità. Guardare in faccia i propri alunni, il loro desiderio, e da lì partire senza venire meno di una virgola alla totalità o complessità della propria materia. Che deve essere insegnata dentro un contesto di relazioni, dentro la struttura di incontri e legami di cui s’è detto, dentro un luogo istituzionale da abitare senza subirlo. 



Ogni incontro, infatti, ha una sua logica e l’incontro che si fa a scuola ha potenzialità inaspettate. Le botteghe dell’insegnare, i salotti serali, le bancarelle di testi scolastici e sussidi di ogni genere che affollavano atrii e corridoi della tradizionale sede che da anni ospita l’evento, documentavano questa passione per il lavoro dell’insegnante. Un lavoro tipico, unico. Culturale e didattico al tempo stesso. Ricco di significati che attengono alle grandi matrici disciplinari di cui è fatto il sapere e allo stesso tempo pieno di attenzione all’altro cui ci si rivolge, sia esso l’alunno della scuola dell’infanzia o l’internauta liceale fornito di tablet e smartphone. 

Le botteghe di Diesse sono appunto questo: luoghi di confronto, di formazione e di memoria della propria identità. Un patrimonio imperdibile di fonti di aggiornamento che quest’anno ha anche deciso di affrontare la prova forse più ardua, ma alla fine riuscita: ripensare l’intera Convention e i percorsi delle singole botteghe in chiave di unità formativa, secondo le indicazioni ministeriali. In quest’ottica gli aderenti all’evento si sono anche sottoposti ai meccanismi ministeriali e alla piattaforma Sofia (nomen omen!). Anche da questo lato qualche intoppo si è registrato, ma niente paura: per chi vuole prendere il largo nella realtà della scuola (e della vita) l’inghippo è sempre un’opportunità.