Sono ormai disponibili fin troppi numeri e graduatorie per l’edificante (e purtroppo non sempre disinteressato) proposito di aiutare giovani e famiglie a scegliere l’istituto secondario da frequentare. I recenti dati di Eduscopio della Fondazione Agnelli si aggiungono, ad esempio, ai risultati delle prove Invalsi, con tutte le loro sofisticate stratificazioni nazionali, regionali, provinciali, di ambito e di istituto. Tali risultati si integrano poi con i rapporti periodici del Miur su dispersione, inclusione, dotazioni finanziarie e attrezzature delle istituzioni scolastiche, distribuzione, trasferimento, aggiornamento dei docenti ecc. sempre dal livello nazionale a quello locale; con gli esiti annuali delle indagini internazionali Ocse-Pisa; con i prontuari statistici di sempre più numerose riviste e fondazioni varie su temi più o meno mirati; con i rapporti predisposti dai servizi di valutazione delle Regioni, di reti di scuole e di singole istituzioni scolastiche.



Ma di buone intenzioni, come ci ricorda il proverbio, è purtroppo lastricata la via dell’inferno. Primo perché tutte queste pur interessanti elaborazioni statistiche sono il frutto di impostazioni teoriche tra loro non omogenee, con scopi e indicatori diversi, su dati selezionati in tempi diversi e, soprattutto, lavorati con metodologie non uniformi e spesso nemmeno comparabili. Finiscono così più per confondere che per aiutare perfino l’osservatore più competente e attento. Secondo perché nessun giovane e nessuna famiglia reali hanno non tanto o non solo la competenza e la voglia, ma letteralmente il tempo di esplorare con quel minimo di affidabilità critica necessaria tutto questo profluvio di numeri e tabelle. Finisce quindi per “affidarsi” ai sentito dire tra il circolo più o meno ristretto di amici e conoscenti, alla cosiddetta reputazione mass-mediale, ai propri ricordi scolastici.  



La circostanza spiega anche perché, nonostante tutta questa astratta disponibilità di dati per così dire “scientifici”, restino ancora molto di moda gli open day. Anzi, perché siano ormai diventati vere e proprie strategie di marketing per scuole statali e non statali. In alcuni casi, a parte i siti internet dei singoli istituti, assistiamo perfino alla pubblicazione su giornali e periodici di pagine pubblicitarie e con il seguito di spot televisivi. 

La sorpresa sta nei numeri delle adesioni a queste iniziative spettacolari segnalati da sempre più numerosi servizi giornalistici. Code di genitori dinanzi alle scuole più gettonate, prenotazione delle iscrizioni dei figli fin dalla seconda media, turni a prenotazione per i visitatori, con tanto di gestione informatica delle liste. Il fenomeno coinvolge, in verità, con queste dimensioni, soprattutto alcuni licei cittadini. Seguono gli istituti tecnici di più rinomato prestigio. Molto più a distanza alcuni istituti professionali. E, per ultimi, i Cfp regionali. Anche quelli che offrono a ben più del 5 per cento minimo di iscritti (come disposto dalla legge Aprea in Lombardia) la straordinaria opportunità di acquisire prima qualifiche, poi diplomi e infine anche diplomi superiori in apprendistato formativo. Tipologia che sarebbe, oggi, l’unica ad assicurare una vera rivoluzione per la qualità dell’insegnamento/apprendimento e, insieme, per quella del lavoro nostrano, costretto finalmente a non essere più separato dallo studio, ma con esso in quotidiana alternanza. 



Se fosse vero che le scelte individuali sono frutto di calcoli rigorosamente razionali sul rapporto costi e benefici lungo tutto l’arco di una vita, si dovrebbe concludere che la maggior parte delle famiglie e dei giovani dovrebbero preferire le opportunità formative a disposizione dopo i 14 anni, almeno in Lombardia, invertendo la graduatoria fino ad oggi dominante. Mettere al primo posto, in altre parole, la scelta dei Cfp regionali che praticano il 50 per cento del tempo in alternanza scuola-lavoro e che assicurano la possibilità dell’apprendistato formativo, quindi, a seguire, le altre tipologie di scuole, dai tecnici ai licei.  

Probabilmente, tuttavia, hanno ragione i sostenitori della teoria che fa conseguire le scelte individuali dalle aspettative alimentate dalle condizioni di ceto, status e ambiente culturale delle famiglie. I privilegiati economici, sociali e culturali, quelli con genitori laureati e di successo, con abitazioni nei quartieri bene delle città, opterebbero, insomma, prima di tutto, per il suo significato simbolico e di distinzione sociale, per il liceo classico, poi per gli altri licei, quindi, a parecchia distanza, per i tecnici, i professionali e, solo come caso estremo, vissuto peraltro come una sconfitta e non come un’opportunità educativa e culturale, per i Cfp o l’apprendistato.   

C’è anche, a dire il vero, chi farebbe dipendere le scelte individuali dalla qualità e dalla quantità delle azioni professionali erogate da esperti di orientamento in apposite strutture dedicate, siano esse le scuole medie o i vari centri per l’orientamento scolastico e professionale esistenti. E ciò soprattutto tra un ciclo e l’altro.

Forse, come sempre, queste teorie sono tutte in parte vere. Dovrebbe far pensare e discutere, però, il fatto che, in questo contesto, l’unica che pare assente, o troppo trascurata, sia quella pedagogica che, invece, si caratterizza, come è noto, per tre fondamentali consapevolezze. 

La prima. I numeri, anche quando sono precisi, restano numeri. Non si possono mai riferire all’idiografico (al caso singolo), come deve fare l’educazione, ma sempre al nomotetico (al generale). Valgono quindi sempre in astratto. Perfino se riferiti non ad un istituto, ma addirittura ad una particolare classe scolastica. Astratto, e non particolare, attento ai casi singoli, è per forza di cose anche ciò che si può sentire agli open day. Ora se un giovane o una famiglia che abitano in un luogo dovessero scegliere la scuola da frequentare solo a partire dall’ispezione di numeri, tabelle e graduatorie e da ciò che sentono e vedono negli open day farebbero con ottime probabilità la fine dell’asino di Buridano, l’asino che morì di fame perché non seppe decidere da quale di due mucchi di fieno tra loro uguali (uno a destra e l’altro a sinistra) cominciare a mangiare. Se si compie, insomma, la scelta migliore in astratto e restando nel generale, si è quasi sicuri di fare una brutta fine nel concreto del caso singolo. 

La seconda. Quando si ha a che fare con l’educazione delle persone, il problema cruciale non sta tanto nella deliberazione più o meno ponderata e giustificata razionalmente che ciascuno assume, quanto nella sua traduzione in azioni concrete, delle cui conseguenze si deve poi rispondere (responsabilità). Aristotele chiamò phronesis questo designare la scelta dell’opzione migliore nelle circostanze singole date, l’accortezza nell’azione più corrispondente a tale scelta e il giudizio equilibrato sul contesto nel quale si collocano sia il momento deliberativo sia quello attivo.  Cicerone la nominerà prudentia (a suo avviso, contrazione di providentia), definitivamente promossa a virtù cardinale della prassi umana dal cristianesimo. Il problema dell’agire bene, dunque, non sta tanto nella bontà della scelta tra alternative possibili, ma nella decisione e nell’azione concrete. Che poi significa mettersi in gioco. Conoscersi di persona.  Assumersi reciproche responsabilità, risponderne, confermarle nel tempo. Aiutarsi l’un l’altro a rispettarle. 

L’ultima consapevolezza è la più importante. Proprio per le due precedenti, si tratta di rendere i ragazzi, non i genitori o le scuole o i pregiudizi sociali e culturali, i veri protagonisti delle loro scelte di realizzazione futura e soprattutto delle azioni e delle responsabilità che tali scelte comportano. Da questo punto vista, siccome nessuno può imparare a nuotare se non entrando in acqua e imparando a distinguere se si tratta di acqua di piscina, di fiume, di lago o di mare, è antieducativo chiedere ai ragazzi di scegliere la loro formazione futura senza averli messi nelle condizioni, almeno in parte, di provarla. Come possono fare i ragazzi di 12 o 13 anni a verificare se sono motivati all’apprendimento e se imparano più e meglio, e perché, nel setting di un apprendistato formativo se non hanno mai visto come lo svolgono e lo vivono apprendisti concreti in un’impresa concreta e non sono mai stati aiutati a riflettere criticamente e con sistematicità su questa loro esperienza osservativa? Come possono sensatamente farsi un’idea di che cosa significhi frequentare un liceo, un istituto tecnico, un professionale o un Cfp in alternanza scuola-lavoro, e che differenze esistono tra essi, se non fanno almeno una settimana all’anno di esperienza in ciascuna di queste diverse tipologie formative e non sono aiutati dai compagni e dai docenti di partenza e di arrivo a rileggerla? Perché, ad esempio, le scuole medie non usano a questo scopo le 160 ore annuali introdotte fin dal 1977 e lasciate all’autonomia delle scuole? 

Sarebbero 480 ore in tre anni. Non poche. Certo più che sufficienti, se ben impostate, a dare sostanza pedagogica agli interrogativi prima posti. E perché non coinvolgere in queste esperienze anche i genitori, e magari non contemporaneamente ai figli proprio per facilitare poi un dialogo comparativo tra adulti (docenti e genitori) e minori? Forse perché non si può? A parte che è falso e che, anzi, pedagogicamente, si dovrebbe, ma questi interventi orientativi non sarebbero meglio di tante scelte condotte soltanto su numeri e graduatorie o su open day più spettacolari che sostanziali? 

Forse tanti pregiudizi degli studenti e tante false aspettative delle famiglie potrebbero essere da subito dissolte. E consentire di dare ragione al Neottolemo del Filottete sofocleo: “tutto è intollerabile quando un uomo, tradendo la sua natura originaria, fa ciò che non gli si addice”, e anche alla constatazione di Carlo Martello d’Angiò, primogenito di Carlo II lo Zoppo, che, incontrando Dante nel Paradiso, dice che la nostra “traccia è fuor di strada” perché non rispettiamo il “fondamento che natura pone” nei figli e, in questo modo, torciamo “alla religione tal che fia nato a cignersi la spada” e facciamo “re di tal ch’è da sermone”.