E’ giunto il momento, anche quest’anno, di mettere da parte un certo “filosofare”, o se volete chiacchierare, nel senso di speculare in maniera generale e spesso vuota sui fatti e misfatti della società italiana, per dare spazio al pragmatismo necessario nel redigere il bilancio consuntivo dell’azienda Italia. Nonostante segnali di una ripresa economica europea, il nostro Paese si conferma maglia nera in termini di ricchezza pro-capite prodotta. Tra gli eventi negativi, la nostra nazionale di calcio non parteciperà ai  prossimi mondiali, l’Olanda conferma il record per l’esportazione dei pomodori (ho detto pomodori!), e come se non bastasse, la Venezia del nord ci ha soffiato, grazie al lancio di una monetina, l’Agenzia europea per il farmaco. Potrei continuare ad elencare le voci negative di questo bilancio, ma solo un certo orgoglio nazionale, che ho conosciuto per la prima volta nel lontano 1982, mi spinge a ricordare la recente notizia che i ricercatori italiani anche quest’anno sono tra i migliori d’Europa, secondi solo ai tedeschi. 



A supportare questo dato sono i 33 studiosi italiani che hanno vinto l’ambitissimo Consolidator Grant (parliamo di 2 milioni a progetto) che l’Economic Reseach Council destina a ricercatori di qualsiasi nazionalità per svolgere un progetto di ricerca in Europa. Fino a qui, grande Italia, e allora dov’è il problema? 



Il problema è interrogarsi sul perché oltre la metà dei vincitori italiani abbia scelto, come d’altronde la totalità di quelli non italiani, di svolgere la propria ricerca fuori dall’Italia. Questo fenomeno potrebbe essere originato, almeno in parte, da una molteplicità di fattori, spesso chiamati in causa in questi frangenti, come il fatto che i laboratori sono spesso inesistenti, il sistema è poco meritrocratico e le prospettive di carriera incerte, e poi si insegna troppo e questo è un grosso svantaggio per chi deve gestire un team di ricercatori e portare avanti un progetto di ricerca impegnativo. 



Se si vuole comprendere meglio questo fenomeno, bisogna scorrere l’elenco dei vincitori italiani e integrare questa informazione con le loro biografie. Guardando a coloro che hanno deciso di spendere il proprio grant nel Regno Unito, per esempio, il primo della lista è Giuseppe Battaglia, professore nella prestigiosa Ucl, esperto di Molecular Bionics, che ha conseguito la laurea in Ingegneria nell’Università di Palermo, ma che, dal dottorato in poi, ha condotto la sua ricerca nelle migliori università inglesi. Scorgo nella lista Francesca Buffa, professoressa nel dipartimento di oncologia dell’Università di Oxford: dopo il master in fisica teorica nell’Università di Torino, anche lei ha proseguito la propria formazione e carriera nelle migliori università inglesi. Anche l’economista Alessandro Gavazza, professore all’Lse, dopo la laurea all’Università di Torino ha trovato il successo nel mondo anglosassone; l’astrofisico Andrea Miglio, dopo la laurea in fisica conseguita all’Università degli Studi di Milano, arriva all’Università di Birmingham, e Paolo Surico, prima professore di economia all’Università di Bari ma troppo bravo per non farselo scappare, è oggi professore alla London Business School. 

Questi esempi dimostrano che i nostri eccellenti ricercatori sono andati via dall’Italia molti anni prima di vincere i prestigiosi fondi europei. Sono ricercatori, professori che si trovano nelle migliori università del mondo, editori di prestigiose riviste scientifiche, che dirigono team straordinari, e che hanno una grande notorietà internazionale. Ma allora la domanda che ci si dovrebbe fare è: chi sono queste stelle, questi 14 studiosi italiani che concorrendo con le migliori istituzioni in Europa sono riusciti a convincere i valutatori (esperti del settore) della qualità del loro progetti? Sono ancora in Italia gli ingegneri Gianluca Botter, Valeria Chiono, Gianluca Fiori, Alessandro Molle, Annamaria Petrozza; i fisici Pasquale Calabrese, Nicola Poli, Nicola Neri, Michela Mapelli, e il matematico Paolo Stellari. E poi ci sono i nostri letterati Silvia Ferrara e Marco Carlo Passarotti, lo zoologo Gentile Francesco Ficetola, e lo psicologo Marco Tamietto. Non credo che riusciremo mai a fare rientrare i nostri cervelloni, nemmeno con la Brexit,  ma cerchiamo, almeno, di non far fuggire dall’Italia queste stelle e rafforziamo i loro team, aggiungendo altre risorse (pubbliche e private), per essere sempre più concorrenti nel mondo spietato dei cinesi e degli americani dove l’unico motto è “pubblica o perisci”. Detto ciò è anche vero che la ricerca non ha confini, e non importa troppo dove lavorerà la nuova Montalcini, perché la sua ricerca recherà fama all’Italia e “vantaggio” a  tutto il mondo.