Qualche mattina fa Federico, mio allievo di prima media, ha alzato gli occhi allo spicchio di cielo ritagliato oltre la finestra dell’aula e mi ha lanciato un “Guardi prof: che bella quella nuvola!”. Erano da poco passate le 8 — l’ora degli sguardi ancora assonnati, delle azioni che faticano a rimettersi in moto — e Federico già osservava il mondo con occhi diversi. Stupito lui e stupito io del suo stupore. Cosa avrà visto “dentro” quell’ammasso di acqua condensata, sospesa in forma volubile nell’aria? Qualcosa che i suoi compagni e io stesso non abbiamo avuto il coraggio di vedere. Anzi di intra-vedere, di vedere dentro, di cogliere attraversando la banalità della materia. Con l’ardore e l’ardire di andare oltre. Perché ha ragione Saint-Exupéry: “Non si vede bene che con il cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi”.
In giro per scuole e biblioteche a presentare il mio libro, cito spesso ad un pubblico di docenti e genitori, perlopiù disincantati, la poesia come strumento di lettura della realtà. Chiedo loro cosa ci sia di più utile all’esistenza, di più concreto, di una poesia. “Spesso quand’io ti miro/ star così muta in sul deserto piano/ che, in suo giro lontano, al ciel confina;/ ovver con la mia greggia/ seguirmi viaggiando a mano a mano;/ e quando miro in cielo arder le stelle;/ dico fra me pensando:/ a che tante facelle?/ Che fa l’aria infinita, e quel profondo/ infinito seren? Che vuol dire/ questa solitudine immensa?/ ed io che sono? Così meco ragiono…” s’interroga Leopardi. Così facendo invita anche noi a porci le stesse domande costitutive dell’animo umano, senza le quali l’uomo è meno uomo e perde in dignità.
La prima regola per domandarci “ed io che sono?” è, allora, la capacità di stupirci, parola rimasta intatta dal latino che significa meravigliarsi fino a dimenticare per un istante il mondo attorno. Un poeta di oggi, Davide Rondoni, parla dello “stupore dell’esistere” nascosto in un verso; Albert Einstein, forse il maggiore scienziato del Novecento, avverte che “chi non prova stupore è come morto”; Povia canta “I bambini fanno ohhh!”; San Gregorio di Nissa (IV secolo) assicura che “solo lo stupore conosce”; il vangelo apocrifo degli Ebrei ci regala lo stupendo “Chi si stupisce regnerà”. Uomini, tempi, fedi, culture diverse eppure concordi: senza stupore siamo destinati a diventare automi.
E’ questo che vuole il potere di chi governa gli stati, le banche, la finanza, l’economia, le scienze e finanche la cultura variamente intesa? Perché, diciamolo chiaro: per stupirsi sembra non ci sia più tempo. In famiglia, nella scuola, sui mass media. Se dico a due genitori che il loro figlio sogna di fare il pittore, facile che mi guardino con preoccupazione e citino il fratello maggiore, “quello con la testa sulle spalle e che l’anno prossimo si iscriverà ad economia e commercio”; se agli alunni di terza chiedo di manifestare i loro desideri riguardo al lavoro, facile che mi rispondano “il medico o, il commercialista, come mio padre che guadagna tanto”; se guardo un talk-show, facile che mi imbatta nell’esperto di turno che spiega i motivi — tecnici, perché la tecnica, non la bellezza salverà il mondo! — per cui un ragazzo si droga o bullizza i compagni. Mai che ci si fermi un istante a lasciarsi stupire dal bacio di due innamorati al parco o dallo sguardo di un bambino davanti alle luci del presepe. Non c’è tempo, non c’è spazio, non c’è modo. Non c’è stupore. Lo esige il burattinaio che tira i fili d’una società indaffarata, dimentica dei suoi poeti: “tutte le immagini portano scritto: più in là!” ci ricorda Montale. Fino a quando Federico viene attraversato per un istante dallo stesso stupore che c’è negli occhi, nei capelli, nelle mani di Pietro e Giovanni che corrono al Sepolcro la mattina di Pasqua, immortalati da Eugene Burnard nel famoso dipinto conservato al Museo d’Orsay. Una stampa acquistata proprio là mi sta sempre di fronte quando scrivo: “Possibile che sia davvero risorto?”.