Alle 8 entro a scuola. Prevedo una giornata difficile: mi aspettano diversi appuntamenti con i genitori. Ce n’è uno che mi preoccupa: so già che dovrò affrontare un problema difficile da far comprendere. Un’ora dopo ho in presidenza entrambi i genitori, segno che il livello di preoccupazione e di rabbia è alto. Ed ecco il problema: mi fanno vedere una chat di classe, ci sono ingiurie pesanti nei confronti della loro figlia. Fino ad oggi i genitori, nella loro quotidiana messaggistica personale, si sono confrontati per lo più con comunicazioni “happy”: video ironici, comici, messaggi di auguri che rimandano a immagini floreali, solari… ma ora scoprono l’altra faccia di whatsapp, quella meno divertente, che ferisce.
Partono le accuse: i prof che fanno durante le lezioni? Non si accorgono di niente! Nostra figlia è diventata oggetto di bullismo, non dorme più la notte, è in preda all’ansia, non vuole venire più a scuola… la scuola deve intervenire perché è responsabile.
Ci siamo — penso tra me e me — ma responsabile di che cosa? Non è stato un ragazzo a scrivere le offese? “Nella chat — chiedo invece a voce alta — oltre al nome del compagno che ha scritto l’insulto, c’è anche l’ora dell’invio. Possiamo controllare insieme per favore?”.
Aspetto pazientemente che i genitori prendano coscienza del fatto che la maggior parte dei messaggi sono stati inviati in orari non mattinieri. In verità, qualcuno è scritto anche al mattino. Il mio pensiero va alla ministra che ha dichiarato che i telefonini a scuola possono essere portati “anche se usati solo per attività didattiche”. non credo che la ministra sia mai entrata in una classe e vi abbia fatto lezione, perché altrimenti saprebbe che oltre a guardare i ragazzi negli occhi per vedere se l’attenzione è viva, bisogna anche controllare le dita che sotto il banco scrivono i messaggi.
A questo punto il colloquio si fa sempre più difficile, perché i genitori, come i loro figli, non riescono a capire che non c’è un chiaro confine tra ambito pubblico e ambito privato nell’uso dei social network. I ragazzi credono di comunicare liberamente, usando un linguaggio anche pesante, ma il messaggio ha una paternità precisa e quindi una responsabilità facilmente individuabile. L’aggressione verbale, trasmessa tramite social, fa facilmente individuare l’autore, che nel momento stesso in cui preme “invia”, ha esteso il proprio pensiero oltre ogni limite consentito dalla “semplice” aggressione visiva. Ma la scuola non può applicare sanzioni, come richiesto dai genitori, perché il fatto è avvenuto entro precisi limiti privati anche se vi accedono molti utenti. Mentre spiego ai genitori tutto ciò, colgo sguardi sbalorditi, irati, delusi. Si sentono traditi. Ritengono che la situazione richieda un intervento deciso da parte mia.
Continuo a parlare, cerco di spiegare che la scuola può e deve affrontare il problema, ma da un altro punto di vista: quello educativo, basato su interventi in classe miei, dei docenti, dello psicologo e anche della polizia postale. Li faccio riflettere sul fatto che il vero problema non è tanto l’insulto in sé, quanto una cattiva comunicazione tra i ragazzi, che sottintende fragilità e immaturità. Il linguaggio usato rivela l’incapacità di gestire in modo civile i loro rapporti. Nel messaggio, l’adolescente vuole esprimere solo il proprio punto di vista, non c’è ascolto delle ragioni dell’altro, non c’è mediazione, né un venirsi incontro, si evidenzia solo una volontà di prevaricazione. È vero che questa modalità di scontro è tipica dell’adolescente, ma i messaggi delle chat la esasperano.
I genitori insistono: “questo è bullismo!”. Spiego pazientemente che solo se l’insulto è reiterato nel tempo possiamo parlare di bullismo: o almeno, è quello che dice la legge, anche se so benissimo che a volte basta anche un solo insulto, nei ragazzi più sensibili, per generare un isolarsi in se stesso, un rifugiarsi in un mondo di solitudine. Questi atteggiamenti sono per lo più nascosti, e sfuggono sia alla famiglia che alla scuola, per cui quando vengono alla luce si manifestano nelle forme più esasperate e generano sconcerto, preoccupazione, a volte impotenza e sensi di colpa, perché i genitori mettono sotto accusa il rapporto educativo che hanno con i figli.
Provo a chiedere se hanno parlato con i genitori dei ragazzi coinvolti. Naturalmente no, non li hanno cercati, è la scuola che deve risolvere il problema punendo gli autori dell’insulto.
Mi vengono in mente le reazioni degli altri genitori in altre occasioni simili: c’è chi nega decisamente che l’autore del fatto sia il figlio e solo quando mostro le prove rimane allibito e allora cerca aiuto, e c’è chi invece non vuol prendere coscienza del fatto, si alza e se ne va.
Sicuramente tutto ciò rivela un’emergenza educativa che ci fa dire che le istituzioni non riescono ad intercettare i disagi prima che questi esplodano. Che fare? Il rischio concreto è che scuola e famiglia si accusino l’un l’altra e perdano di vista il focus della vicenda: il “bullismo 2.0”. Invece, bisogna allearsi, fare sistema, individuare, se possibile, la causa del disagio e trasformare un fatto negativo in momento di riflessione e costruzione positiva di sé. Bisogna far prendere coscienza ai ragazzi delle conseguenze negative a cui si va incontro anche penalmente, delle motivazioni che portano a considerare l’altro un nemico da colpire per affermare la propria presunta superiorità nel gruppo, a creare rapporti costruttivi attraverso l’ascolto attivo dell’altro. Sono adolescenti. Il percorso sarà tortuoso, fatto spesso di cadute; si rende necessario dare la possibilità di risalire e di maturare.
Dopo un’ora il colloquio è terminato, non so se li ho convinti, spero però che riflettano su quanto ci siamo detti. A volte i genitori ritornano e ringraziano: sono momenti da ricordare, perché hanno vinto tutti.