Pochi giorni fa è stato presentato ufficialmente il rapporto conclusivo con i risultati sul “problem solving collaborativo”, nell’ambito dell’indagine internazionale Ocse-Pisa edizione 2015.
Con cadenza triennale a partire dal 2000, Pisa (Programme for International Student Assestment) si pone l’obiettivo di rilevare in che modo gli studenti 15enni, avviandosi alla conclusione dell’istruzione obbligatoria, abbiano acquisito le competenze e le conoscenze necessarie per poter esercitare la propria cittadinanza in modo attivo e consapevole nella società moderna. La rilevazione riguarda tutti i paesi Ocse, più numerosi altri paesi partner. Il focus principale è sulle abilità in lettura, matematica e scienze (sono anche alcune delle principali discipline scolastiche); vengono, inoltre, valutate altre capacità, come, ad esempio, la sensibilità finanziaria o la familiarità con le tecnologie dell’informazione e della comunicazione.
Nell’ultima indagine condotta nel 2015, viene introdotta, come oggetto di rilevazione, una competenza inedita, il “problem solving collaborativo”: l’attenzione è posta sul fatto che nel mondo globalizzato interconnesso è importante l’attitudine a risolvere problemi nuovi ed inconsueti, a livello sia di vita personale che lavorativa, ma la soluzione di tali problemi, spesso, richiede come prerequisito la capacità di collaborare ed interagire. Il saper lavorare in gruppo è condizione necessaria del fare.
E’, dunque, importante che, già a scuola, gli studenti trovino un ambiente che li stimoli a confrontare le diverse opinioni, a creare sinergie positive e ad essere capaci di organizzare il lavoro di gruppo, valorizzando le competenze ed i contributi di tutti; è necessario che tutti, in un team, operino con impegno e spirito di collaborazione. Il lavoro di gruppo è dunque una competenza e un’attitudine; non è detto che tutti ne siano naturalmente portati; tale capacità si può, però, sviluppare con il tempo e la pratica, ed in questo la scuola è chiamata ad un ruolo imprescindibile.
Il lavoro in gruppo, però, nasconde non pochi rischi: può succedere che, nel team, i compiti non siano suddivisi in modo efficace, che un membro si faccia carico anche del lavoro di un altro, oppure che le tensioni interpersonali o la mancanza di comunicazione impediscano di esprimere le reali potenzialità di tutti i membri.
Alla luce di tali premesse, Pisa 2015 ha previsto la somministrazione di specifiche prove computer based, in cui, attraverso specifiche simulazioni, lo studente si confronta con le difficoltà del lavoro in gruppo e misura la sua capacità in tale ambito.
A dire il vero, il “problem solving” è già stato oggetto di rilevazione in edizioni precedenti, ma, in passato Pisa lo intendeva nella sola accezione di capacità individuale.
Nel 2012, infatti, la competenza in “problem solving” è definita come il risultato della padronanza degli studenti su quattro processi chiave: 1) saper raccogliere informazioni su un problema; 2) saper rappresentare un problema e le relative variabili in tabelle, grafici, parole chiave o altre rappresentazioni grafiche; 3) saper definire una strategia per la soluzione e portarla avanti; 4) assicurarsi che la strategia venga realmente seguita e reagire in modo efficace alle sollecitazioni durante il percorso che porta alla risoluzione del problema.
Su queste quattro abilità “il problem solving collaborativo” innesta ulteriori tre componenti: a) la capacità di stabilire e mantenere processi di condivisione di conoscenza (capire che cosa sanno gli altri membri del gruppo ed assicurarsi che tutti abbiano la stessa visione del problema); b) avere un ruolo appropriato entro il gruppo nella soluzione del problema (capire che cosa fare entro il gruppo; dividersi i compiti ed eseguire i compiti assegnati); c) stabilire e mantenere l’organizzazione del gruppo (è necessario che tutti svolgano i compiti assegnati e che ci sia una verifica continua sulle attività di tutti).
Una delle prove (denominata “Xandar”) è stata rilasciata: nell’ambiente digitale simulato lo studente interagisce con attori virtuali (i cosiddetti “computer agents”), all’interno di un gruppo alla prova con lo svolgimento di un compito assegnato.
Si presuppone che le competenze relative al lavoro collaborativo espresse dallo studente nell’ambiente virtuale, rispecchino anche quelle nell’ambiente reale: tale assunto è stato confermato da uno specifico studio, condotto appositamente per la rilevazione internazionale.
Lo studente risponde ai dialoghi, alle sollecitazioni ed ai comportamenti posti dai suoi colleghi, scegliendo tra quattro possibili opzioni. Le risposte date tracciano il profilo di competenza dello studente.
Ma quali sono i risultati dell’indagine? Quali informazioni degne di rilevanza ci restituiscono i test?
Alla ricerca, in Italia, hanno partecipato più di 11mila studenti, rappresentativi statisticamente dell’intera popolazione dei 15enni; i risultati, interessanti anche per la stabilità della somministrazione, di fatto riproducono alcuni dei limiti noti del nostro sistema scolastico.
Anche sulla capacità di “problem solving collaborativo” (di seguito indicato come Psc), come per le altre competenze, l’Italia si pone al di sotto della media Ocse (media pari a 500), con il punteggio di 478; rispetto ai 35 paesi Ocse, ben 24 hanno performance migliori dell’Italia. Paesi dell’Unione Europea che fanno peggio di noi sono solo la Croazia, l’Ungheria, la Slovacchia, la Lituania, la Grecia, la Bulgaria.
Singapore è al primo posto con un punteggio pari a 561 e, tra i paesi Ocse, il Giappone con 552 punti.
Ad un grado di ulteriore analisi, emerge che il 35% degli studenti italiani presenta un livello scarso di competenza (definito dal livello 1 o al di sotto, su una scala a 4 livelli). Il dato è nettamente al di sotto della media Ocse (pari al 28%). Preoccupante è anche il dato che riguarda le eccellenze: solo il 4,2% degli studenti si colloca nella fascia alta della scala, contro una media Ocse, pari all’8%. Anche nell’ambito del Psc, come per altri campi del sapere, il sistema scolastico italiano non è in grado di valorizzare e coltivare le eccellenze.
Per quello che riguarda il genere, la performance delle studentesse è migliore rispetto a quella dei maschi (589 punti contro 466); questo rispecchia una tendenza rilevata a livello internazionale (tale caratteristica può essere ricondotta alla migliore capacità delle femmine di stringere relazioni positive).
I risultati sul “problem solving collaborativo” degli italiani mettono poi fortemente in evidenza tre mali del nostro sistema scolastico, già ampiamente descritti, ma su cui la politica non ha ancora fornito risposte soddisfacenti.
In primo luogo si registra come il livello di abilità conseguito dagli studenti sia correlato in modo diretto con lo status sociale, economico e culturale delle famiglie di appartenenza di quest’ultimi (all’aumento di ogni punto di Escs corrisponde un aumento di 6 punti sulla performance): la scuola pubblica ha perso la funzione di ascensore sociale a cui dovrebbe essere chiamata.
Ci sono poi differenze troppo nettamente marcate anche tra le regioni italiane, con risultati pessimi nelle regioni del Sud e delle Isole e risultati buoni nel Nord-Ovest e nel Nord-Est.
Infine, come atteso, si rimarcano anche differenze tra i percorsi di studio, con gli studenti dei licei che, con 511 punti, si pongono anche al di sopra della media Ocse, mentre negli altri ordini si registrano punteggi nettamente inferiori.
Con questi pochi numeri, si può già delineare un primo abbozzo rappresentativo della realtà; il rapporto, però, contiene una vera e propria miniera di dati, qualche volta controintuitivi, che andrebbero letti, discussi e approfonditi e che potrebbero restituirci una comprensione più lucida del nostro sistema scolastico, preziosa per chi ha in mano il potere ed il dovere di assumere decisioni strategiche a livello politico.
E’ interessante, scoprire, ad esempio, come, mediamente, gli studenti Ocse che utilizzano frequentemente i videogiochi riportino punteggi lievemente inferiori rispetto ai compagni.
Per l’Italia potrebbe risultare interessante porre l’attenzione su quanto emerge dall’analisi della figura V.3.9, a pag. 80 del rapporto; la tabella riproduce lo scarto tra il punteggio “reale” ottenuto dagli studenti nel Psc e quello “atteso”, in funzione dei risultati raggiunti nelle competenze fondamentali di Pisa. A livello di paesi Ocse, cioè, emerge una chiara correlazione tra le due variabili. Migliori sono i risultati in lettura, scienze e matematica, migliori sono i risultati in Psc, e viceversa.
In questo caso l’Italia presenta una posizione veramente negativa, ultima in Unione Europea e penultima tra i 35 paesi Ocse (solo la Turchia fa peggio). Come interpretare questo risultato? La posizione così bassa in graduatoria significa che gli studenti italiani conseguono risultati in Psc poco correlati rispetto ai punteggi nelle competenze chiave. Questo significa che anche chi ottiene buoni risultati nelle discipline scolastiche, non necessariamente acquisisce le necessarie attitudini a lavorare in gruppo con successo. Le conclusioni sono facili. L’approccio alle discipline in Italia è ancora prettamente scolastico e non favorisce l’apprendimento di competenze “trasversali”, come appunto la capacità di lavorare in modo collaborativo per risolvere problemi e gestire compiti complessi.
Alla luce di questo, dati alla mano, occorrerebbe ripensare l’organizzazione scolastica italiana, rompere la rigidità delle classi, favorire la possibilità di costruire reali percorsi personalizzati, innovare la didattica che è ancora di tipo trasmissivo, e soprattutto superare i vincoli imposti dalla normativa alla cosiddetta vigilanza scolastica (tema questo, al centro dell’attuale discussione mass-mediatica e centrale nelle scelte organizzative scolastiche; il concetto stesso, però, è intraducibile in altre lingue e difficile da spiegare per chi proviene da contesti scolastici stranieri).
I dati, dunque, pur con i loro limiti riduzionistici, consegnano informazioni preziose e la possibilità di comprendere meglio la realtà; richiamano l’importanza di ricondurre il dibattito ad informazioni precise, circostanziate e condivise in un momento culturale in cui dominano populismi e demagogia, in cui la politica presenta un tasso altissimo di conflittualità e sembra premiare chi grida più forte, in cui molti — anche senza avere le necessarie esperienze e competenze — si sentono in diritto di proporre le loro ricette miracolose per risolvere i mali della scuola, spesso guardando con nostalgia ad un passato improponibile. Solo con i dati si può avere una comprensione di sistemi caratterizzati da un elevatissimo livello di complessità, per la numerosità degli attori e delle variabili coinvolte. E la comprensione è la premessa necessaria perché la responsabilità del decidere e dell’agire possa essere assunta dai decisori politici con efficacia e lungimiranza, in un’ottica di reale progresso per il nostro Paese.