Il ritorno in grande stile, sui mezzi di comunicazione, della destra radicale, variamente rappresentata da sigle come Forza Nuova, Casa Pound, Veneto fronte skinheads, ecc., è un altro fenomeno tipico dei nostri tempi. Sintomo, cioè, non tanto di nuove idealità, quanto piuttosto della perdita di evidenze e certezze un tempo condivise. Fino agli anni Ottanta dello scorso secolo, la destra antagonista (come peraltro anche la sinistra antagonista) si opponeva violentemente allo Stato democratico nato dalla Costituzione del ’48 attraverso la lotta armata e la strategia della tensione, per eliderne le fondamenta. Lo Stato fece blocco anzitutto valendosi delle sue radici culturali: cattolica, comunista, socialista e liberale, prima ancora che della polizia e dei carabinieri. Queste culture non sono scomparse, ma non trovano oggi riscontri “evidenti” nella differenziazione dei modi di vivere e di pensare. Esistono ancora i cattolici, ma non più il partito cattolico, la banca cattolica, l’azienda cattolica (la stessa “scuola cattolica” è una categoria in cerca di una nuova definizione). Esistono i comunisti, ma non più il partito comunista, il circolo comunista, il sindacato comunista, e così via.
In questo nuovo rimescolamento delle culture, per cui chi nasce oggi, cresce e diventa adulto non trovando un ambito di rapporti già prefabbricato come una culla, ma dovendo scegliere a chi appartenere sulla base delle proprie esigenze fondamentali, risiede la sfida che i tempi rivolgono agli individui. Si parte dalle domande personali per affrontare il mondo: chi sono, a chi appartengo, chi mi ha plasmato fino ad ora e a quali mani intendo affidare il mio futuro? Si parte dalle domande e non dalle risposte in qualche modo già predisposte.
Bene, fa parte di questi nostri tempi la rinascita del fascismo che punta ai giovani per ingrossare le proprie fila e dimostrarsi capace di incisività. Colpisce constatare l’appeal che certe manifestazioni di destra hanno sui giovani: parliamo di slogan razzisti scritti e urlati negli stadi, di un certo modo di vestire alla naziskin (capelli rasati, giubbotti di pelle e stivali), di progressiva conquista di obiettivi che dall’alto potrebbero sembrare del tutto secondari. Fa notizia che in una città come Firenze, ad esempio, l’estrema destra, rappresentata da Casaggì, un centro sociale di destra, abbia vinto lo scorso novembre le elezioni per la Consulta provinciale degli studenti, battendo le liste di Firenze Antifascista e quella dei Giovani Democratici vicini al Pd. Qual è il programma di Casaggì e della collaterale Azione Studentesca per la scuola? Oltre alle strutture più efficienti e ai professori meno faziosi e più competenti, che potrebbero essere gli obiettivi di qualunque lista, la destra studentesca fiorentina propone, come si legge dal sito, “il senso della Comunità, la voglia di sentirsi parte di un progetto edificante, educante e valorizzante, prima tutto questo, poi la piazza e gli strilli”. Il messaggio è incentrato sulla promessa di un’identità comunitaria da vivere continuamente, dentro e fuori della scuola.
Per tornare agli aspetti più generali della destra identitaria che vuole conquistare i giovani, occorre precisare anzitutto che il caso non deve essere per nulla sottovalutato. Le irruzioni di teste rasate nella sede di un’associazione di volontariato o la manifestazione sotto la sede romana di Repubblica hanno un enorme valore mediatico, teso appunto alla conquista di nuove adesioni. Ma qual è il fine? Fatte salve le differenze, talvolta anche profonde tra una sigla e l’altra, lo scopo dell’arcipelago della nuova destra, quella che si cimenta con i tempi della globalizzazione e ha abbandonato, se non la camicia nera, almeno la tentazione del moschetto e dell’olio di ricino, è la “fascistizzazione dal basso della società”, come è stato scritto e come si ricava dai siti di alcune organizzazioni. Non più il fascismo calato sulle teste dall’alto del partito o dello Stato, bensì una sorta di organismo che si costruisce dal basso con occupazioni a scopo abitativo, “occupazioni non conformi” (cioè spazi occupati a fini aggregativi per giovani e studenti), interventi nelle scuole e altre iniziative sociali di vario genere collegate sempre ad una ideologia. La parola d’ordine di questo fascismo del terzo millennio, come usa definirsi, è il comunitarismo come strumento di risposta al disagio, ma per così dire senza la mediazione della persona. La comunità che si difende dagli immigrati, che rivendica i propri spazi di azione e di svago, che nella scuola pretende ordine e merito, è una comunità organica che si sostituisce alla persona. La difende (o pensa di farlo) e nello stesso tempo la annulla nel “fare”, nell’agire collettivo, nel ribellismo che si sente giustificato dalla paura e dal declassamento. Insomma un fatto nuovo, certo, rispetto al quale l’antifascismo di un tempo è pura retorica verbale.
Non sappiamo quanta strada farà questo richiamo, che per ora è solo emergente più che forte e strutturato. Viene da osservare tuttavia che, se pensiamo ai bisogni della persona, alle domande più profonde di senso che hanno gli adolescenti, ancora una volta qui si nasconde una illusione. La comunità, infatti, è un dono, non un corpo nel quale immergersi. Il dono che segue un incontro, magari con un maestro, nella scuola o nella società, capace di trasmettere la positività della realtà qualunque faccia abbia, qualunque colore e aspetto. Partire dalla realtà è diverso che partire dalla paura.