Lo spread tornato improvvisamente sopra i 200 punti base è un campanello d’allarme per il mondo finanziario italiano. E’ il segnale che la febbre della crisi continua a essere presente nel nostro sistema-Paese e può produrre ulteriori effetti deleteri sulla vita sociale ed economica.
Da dieci anni combattiamo con una crisi che non riusciamo a domare. Abbiamo assistito al fallimento o al ridimensionamento di grandi banche internazionali e nazionali, o ancora alla scomparsa di gruppi industriali che pensavamo solidissimi; abbiamo pagato un salatissimo costo sociale e umano con la disoccupazione (soprattutto giovanile) in preoccupante ascesa e con i danni arrecati ai piccoli risparmiatori.
Dopo un decennio cominciamo a prendere coscienza che questa crisi non è un fenomeno passeggero da affrontare con un po’ di cautela, o con una “aspirina”, come si farebbe con un raffreddore. Questa circostanza denota, piuttosto, una faglia profonda che s’è aperta nel tessuto sociale e culturale dell’Occidente. E’ come se improvvisamente i valori su cui abbiamo costruito la nostra civiltà fossero implosi, allo stesso modo di un albero che si abbatte perché le sue radici da molto tempo non erano state più irrigate.
Un esempio può essere paradigmatico per capire il momento che viviamo. La nostra civiltà ha vissuto l’idea del Muro (pensiamo al Muro di Berlino) come un emblema dello Stato dispotico, e della separazione fra il Regno della prigionia e il Regno della libertà. Non a caso nel 1989 abbiamo festeggiato a Berlino la vittoria della libertà e dell’umanità. Eppure, oggi, proprio gli Usa progettano un muro che li protegga dai migranti messicani, e in Europa sorgono nuove barriere (in Ungheria, a Calais). La civiltà dell’accoglienza e della libertà si chiude a riccio per timore di perdere il proprio benessere, ma rischia di perdere la propria identità.
Per dirla con una espressione efficace di Pietro Barcellona, ci troviamo a un “passaggio d’epoca”. Come quando crollò l’Impero romano e lentamente si formò la civiltà cristiana che diede vita all’età medievale; o come quando con la Rivoluzione francese e l’Illuminismo si pose fine al Vecchio Regime, fondato su potere divino e potere regale, per instaurare l’Età della Ragione.
Cosa connota oggi il drammatico momento che stiamo vivendo? “L’estinzione della passione di vivere”, sosteneva Pietro Barcellona nel 2011. Nel nostro tempo sono venuti meno la fiducia nella realtà, la capacità di accogliere l’altro, la voglia di fare progetti per il futuro. Per questo siamo appiattiti sulla nostra solitudine, come “erranti lamentosi” (per usare la bella espressione di Roberto Cafiso nel libro Psico-intervista alla crisi) alla ricerca di un riparo per combattere l’angoscia.
E c’è chi non resiste, come il trentenne friulano che s’è tolta la vita pochi giorni fa lasciando un drammatico messaggio: “Non posso passare la vita — ha scritto — a combattere solo per sopravvivere (…). Il futuro sarà un disastro a cui non voglio assistere, e nemmeno partecipare”.
A quel tipo umano, che ben descrive molti giovani d’oggi e molti adulti espulsi o tenuti alla larga dal mercato del lavoro, la società propone solo facili scappatoie, come ci ricorda ancora Cafiso: la via dell’alienazione nella droga, che ottiene l’effetto di estraniarci dalla nostra condizione; o la via del tentare la fortuna, che ci promette una uscita dalla crisi ma ci conduce spesso a forme di ludopatia, divenute un’altra emergenza del nostro tempo.
Nei momenti di passaggio d’epoca non ci sono soluzioni precostituite. C’è bisogno di “ricostruttori”, di nuovi monaci o di nuovi illuministi.
Scriveva Hannah Arendt che “una crisi costringe a tornare alle domande; esige da noi risposte nuove o vecchie purché scaturite da un esame diretto”. E Pietro Barcellona le faceva eco sostenendo che il crollo di “un intero progetto di civiltà” a cui stiamo assistendo “non impedisce il riemergere dell’inquietudine umana di fronte al mistero del senso della storia”.
Oggi, tuttavia, le grandi domande di senso sono sepolte sotto una spessissima coltre di cenere e di lava. Anche nei giovani, storicamente i più capaci nella ricerca di un ideale per la vita. Ma proprio perché “l’inquietudine umana” non può essere del tutto cancellata, oggi non abbiamo bisogno di guerrieri o di governanti dal pugno duro, abbiamo bisogno di testimoni che sappiamo infiammare il cuore dei più giovani e di chi non si è rassegnato a vivere nell’insignificanza. Solo così potremo avere persone capaci di badare al bene comune e progettare il futuro. Solo così potremo ricostruire una civiltà.