“Errare è umano, perseverare è tipico della politica scolastica italiana”. Così verrebbe da concludere leggendo con attenzione il testo del decreto legislativo applicativo della Buona Scuola recante la “revisione dei percorsi dell’istruzione professionale, nonché raccordo con i percorsi dell’istruzione e formazione professionale”, licenziato in prima lettura dal Governo e in fase di discussione parlamentare. La cosa è tanto più paradossale perché quel decreto era stato voluto dalla legge 107/15 con l’esplicita intenzione di correggere gli errori della riforma Gelmini, fattisi macroscopicamente evidenti in questi primi sette anni di applicazione nell’istruzione professionale.



La riforma dell’era berlusconiana aveva modificato la fisionomia dei professionali rendendoli quinquennali e di fatto schiacciandoli sul profilo dei tecnici. Chi avesse la pazienza di confrontare il quadro orario di una classe prima professionale con quella di un istituto tecnico troverebbe oggi una differenza di curricolo risibile, con una differenza di solo tre ore settimanali su un totale di 33. Il risultato è stato quello di una caduta verticale delle iscrizioni ai professionali (con l’unica eccezione di tenuta dell’indirizzo professionale alberghiero che non ha corrispettivi sul versante dei tecnici). 



Lo schema di decreto sugli istituti professionali oggi in discussione fa un’operazione di maquillage nominalistico, accorpando le vecchie discipline per assi culturali, ma, di fatto, modificando i quadri orari della stessa classe prima per la miserrima variazione di due ore settimanali, portando i laboratori professionalizzanti da 3 a 5 ore settimanali, su un totale di 32 (viene giustamente eliminata l’attuale 33esima ora di geografia, cervelloticamente aggiunta dalla ministra Carrozza). La timidezza della manovra oggi impostata sembra non voler guardare allo stato di grave sofferenza in cui versano i nostri istituti professionali che, oltre ad imbarcare sempre meno iscritti, vantano percentuali di bocciature e abbandoni da terzo mondo.



L’operazione di maquillage curricolare è perfezionata nel testo governativo in discussione da una lunga, accattivante premessa (Schema di decreto n. 379, art.1) che definisce gli istituti professionali “scuole territoriali dell’innovazione, aperte e concepite come laboratori di ricerca, sperimentazione ed innovazione didattica” che hanno al centro il “principio della personalizzazione educativa”. Peccato che la personalizzazione abbia bisogno di autonomia reale e di flessibilità, mentre la proposta in discussione cala la mannaia dell’abrogazione proprio sulla quota di flessibilità oggi consentita nel primo biennio (fino al 30% dei curricoli) per preparare gli allievi alle qualifiche triennali. La flessibilità viene riservata al terzo anno creando un modello inedito e sbilenco di scolarizzazione secondo lo schema 2+1+2 (vecchio riaffiorante disegno del biennio unico post-media e della professionalizzazione spostata al terzo anno?).

Senza perdersi nei tecnicismi, la questione pare riconducibile a nodi culturali non risolti e tornanti politici che contribuiscono a rendere  confuso il disegno riformatore.  

Il primo nodo riguarda il chiarimento del rapporto tra Istruzione e Formazione Professionale ovvero, più radicalmente, la scelta di sapere se c’è ancora bisogno di un canale professionale quinquennale distinto, ma anche intrecciato, con quello quadriennale di formazione professionale.

Il secondo fattore di complicazione ci rimanda diritti nel dibattito referendario da poco concluso: il decreto legislativo sui professionali è stato verosimilmente impostato col pensiero-speranza di riportare dalle Regioni allo Stato molte competenze nel merito. L’esito del referendum ha invertito la rotta di quel disegno e così ci si deve destreggiare con un riordino che su alcuni temi finisce inevitabilmente per auspicare e suggerire, senza in realtà decidere. Valga per tutti l’esempio del testo dell’art. 6 dove si ipotizza la creazione di classi terze dei professionali per la qualifica distinte da quelle quinquennali, ma conclude, in modo un po’ irrituale per un decreto legislativo, ammettendo che tale creazione potrà avvenire “sempreché ciò sia previsto dalla programmazione delle singole Regioni, nell’esercizio delle proprie competenze esclusive in materia”. 

Un disegno legislativo che si ripropone un rilancio dei professionali sul territorio nazionale finisce per apparire quantomeno deludente se ammette che quanto previsto potrà avvenire solo sui territori di fortunata coincidenza con le politiche scolastiche regionali.