Il mondo della scuola è, ormai da qualche anno, attraversato da interessanti riflessioni sui fini e sulle metodologie di insegnamento nel contesto di un mondo in rapido cambiamento. È innegabile che una scuola che non sappia cogliere le sfide del proprio presente non possa in alcun modo “interessare” gli studenti, e quindi, tanto meno, innescare quei processi di apprendimento che sono essenziali per affrontare lo studio, le relazioni, il mondo del lavoro, in una parola: la vita. In molti concordano che un modello di trasmissione del sapere inteso come passaggio di informazioni sia un modello non più attuabile al giorno d’oggi (oggi che i processi di reperibilità delle informazioni sembrano molto meno problematici di un tempo). Da questa, credo corretta, impostazione del problema si “deduce” una nuova immagine di insegnante: non più di colui che impartisce un sapere, ma colui che si fa guida, che insegna ad imparare, eccetera.
La sfida che mi sembra si profili a questo punto è proprio quella di saper rinnovare l’insegnamento senza rischiare di perdere proprio ciò che si vorrebbe conquistare: ossia la possibilità che nella relazione educativa il soggetto si attivi, metta in gioco in modo creativo e personale le sue capacità in modo che si trasformino in vero sapere, ossia in capacità di interagire costruttivamente con il mondo.
Se ci domandiamo cosa possa innescare questo virtuoso processo, non dobbiamo farci trascinare dalla foga del nuovo e guardare solo in avanti (dove, non so voi, ma io non riesco a vedere). In un bellissimo passaggio di un suo saggio del 1910 (siamo ancora prima della riforma Gentile!) Renato Serra descrive la genesi del suo rapporto di “figliolanza” con Carducci, suo “maestro di civiltà”. Egli è portato — da una serie di constatazioni che qui non interessano — a mettere in paragone due modalità di incarnare l’autorevolezza: Croce e Carducci. Serra ci invita a immaginare di averli di fronte: “con uno [Croce] si può parlare di tutto; con l’altro no. Il campo e l’apertura delle due intelligenze è diversa. Il Carducci ha delle angustie che Croce non conosce. Io sento che a costui, se dovessi prenderlo per maestro, mi potrei confessare in tutto il mio bene e nel male con una sincerità assoluta; poiché la sua intelligenza non rifiuta nulla del mondo. Prima di ogni moto di adesione o di simpatia, mi pare che debba sorgere in lui il desiderio di comprendere”.
Insomma, il Croce sembra profilarsi come modello perfetto di maestro: aperto, disponibile, “saggio”; perfetto come ogni insegnate sogna (crede?) di essere. Con Carducci, personalità meno solare, le cose vanno in modo diverso. Con lui ci sono dei limiti, degli argomenti scivolosi, sui quali è pericoloso avventurarsi, giudizi politici da non dare — pena l’ira del maestro. Eppure anche se col Croce può parlare di tutto “la mia soddisfazione non n’era per nulla cresciuta. Diversa era, non maggiore”.
Con Croce “oltre che minore, e infinitamente, mi sentivo anche diverso, e pur senza nessun bisogno di fare uno sforzo, o un passo solo per avvicinarmi. Non c’era in me entusiasmo né inquietudine. […] Cosa ritraevo di me stesso da quella esperienza? Una valutazione generica che oserei dire perfetta, ma senza insidie di penetrazione, senza luce sul mio secretum; nessuna parte celata si rivelava nell’incontro”.
Ecco che inizia a delinearsi un’immagine di rapporto educativo in cui giocano un ruolo determinante parole come “inquietudine”, “insidie”, “secretum“; parole, direi, oggi bandite da ogni discorso educativo. In particolare colpisce l’accostamento di quei due termini, entusiasmo ed inquietudine, che sono normalmente percepiti in antitesi: o c’è l’uno o c’è l’altro, diremmo. Per Serra, invece, sembra quasi che l’uno dipenda dall’altro. Ma è proprio il contrario dell’inquietudine a non “muovere” nulla nell’umano: “Vorrei dire che il beneficio di lui [Croce] si risolve in una forma logica e universale; non è abbastanza umano per suscitare imitazione”. L’intelligenza di Carducci invece era limitata, nel senso che “poneva dei limiti”; dei limiti contro i quali si poteva urtare, suscitando anche l’ira del maestro: “Ma il giudizio di lui, anche nell’ira, investiva la mia persona come un raggio di luce, ne fermava il carattere con pochi tratti scultorei”.
Le conclusioni di questa breve descrizione le lascio a chi legge (mi tocca solo sottolineare, con disgustoso tono politically correct, che non intendo fare una apologia né dell’ira né dell’autoritarismo). Mi preme invece ritornare sull’immagine così poco rassicurante di maestro che Serra ricava dalla sua esperienza: non uno così perfetto che conosce tutte le risposte, ma una persona che pone dei limiti, e nel porli genera una distanza che fa però sentire il “bisogno di fare uno sforzo, o un passo solo per avvicinarsi” per fare un po’ di luce sul proprio “secretum“.
Solo così il sapere diventa oggetto di desiderio. Il desiderio infatti sorge (come sembra suggerire l’etimologia) nella “distanza dalle stelle”: se non c’è distanza non si può neanche fare un cammino per colmarla, cioè non si può fare quel cammino che l’educazione dovrebbe essere. Un vero educatore allora dovrà avere come principale preoccupazione quella di porre la giusta distanza (né troppa, né troppo poca, ma qui ricette non ce ne sono!) tra sé e gli alunni, tra gli alunni e gli oggetti di conoscenza, in modo da rendere possibile l’esprimersi del bisogno innato di conoscenza di sé e del mondo.
È l’esatto contrario, per certi versi, di un certo modello di insegnante che invece cerca di togliere i limiti, le distanze con gli alunni. Questo modello è raccontato con grande ironia e acutezza in alcune splendide pagine di Nati due volte, di Giuseppe Pontiggia.
Il protagonista, insegnante, descrive il tentativo fallimentare di un collega, Cornali, il quale, paladino delle “nuove metodologie” degli anni Settanta, voleva eliminare questa distanza tra sé e gli alunni. Così bandisce le verifiche (ma quando gli studenti a fine anno leggono i voti in pagella, si scatena il finimondo!) e decide di farsi dare del tu dagli studenti, in nome dell’uguaglianza. Commenta così il narratore: “Molti del resto pensano che l’uguaglianza riguardi anche la grammatica dei pronomi. E non hanno tutti i torti. Ma spesso vorrebbero liberarsi anche della grammatica. Chiedendo agli studenti di considerarlo un coetaneo, Cornali li metteva in imbarazzo, dati i trent’anni di differenza. Assomigliava a quei genitori che si professano amici dei loro figli, illudendosi di condividere con loro non solo i giochi, ma l’età”.
Senza voler qui entrare in merito della questione del lei o del tu, mi importa notare che ci sono scelte che “mettono in moto” la ragione e altre che invece la “mettono in imbarazzo”: solo una distanza da colmare accende il desiderio. Pontiggia sviluppa un ragionamento simile parlando del tema dell’indisciplina: “Gli insegnanti più capaci la neutralizzano prodigando la propria passione didattica. Non sono la maggioranza. Gli altri, abbandonati da terra in alto mare, si comportano come è inevitabile in caso di naufragio: alleggeriscono il carico. Pretendono sempre di meno e così — almeno nei documenti burocratici, diventati il sacrario della nuova scuola — ottengono sempre di più”. L’alleggerire i carichi, quando è una variante di quel togliere una distanza, è ciò che meno mette in moto gli studenti, e cioè meno realizza gli obiettivi che una educazione al passo coi tempi vuole raggiungere.
Contro facili stereotipi di modernità (il culto del nuovo) ma anche contro delle anacronistiche difese di un modello di trasmissione del sapere non più attuabile (nessuna nostalgia!) mi sembra si stagli un dato affascinante: la nostra tradizione umanistica ha una ricchezza d’esperienza ancora viva e giovane, da cui “trarre gli auspici” per costruire il presente e il futuro della scuola.
@profferrari