In questi mesi di scuola i docenti hanno dovuto fare i conti con la formazione, divenuta, con la Buona Scuola (comma 124), “obbligatoria, permanente e strutturale”.
La macchina si è messa in moto e gli insegnanti stanno partecipando ai corsi: chi nella propria sede, chi fuori sede, in rete, on line, e così via. Ma sull’argomento non pochi sono i punti poco chiari.
1) Il primo aspetto dai contorni sfrangiati riguarda il numero delle ore di frequenza. Il Miur ha pubblicato la Nota n. 2915 del 15/09/2016 in cui si legge “Le azioni formative per gli insegnanti di ogni istituto sono inserite nel Piano Triennale dell’Offerta Formativa, […] L’obbligatorietà non si traduce, quindi, automaticamente in un numero di ore da svolgere ogni anno, ma nel rispetto del contenuto del piano”.
L’indicazione è molto chiara: l’obbligo è rispetto al contenuto del piano di formazione delle scuole, non al numero di ore. Ma poiché nelle bozze precedenti erano previste 5 unità formative di 25 ore ciascuna, per un totale quindi di 125 ore nell’arco del triennio, ancora oggi, in alcuni istituti, gira la voce che si debbano svolgere 125 ore.
2) Altro punto di confusione: le unità formative. La Nota suddetta, a settembre, dice: “Al fine di qualificare e riconoscere l’impegno del docente nelle iniziative di formazione, nel prossimo triennio in via sperimentale, le scuole articoleranno le attività proposte in Unità Formative”. A ottobre, il Piano per la formazione dei docenti aggiunge: “Per la definizione delle Unità Formative, in fase di prima definizione può essere utile fare riferimento a standard esistenti, come il sistema dei CFU universitari e professionali”: ma che cosa significa ciò? Che le unità formative devono essere di almeno 25 ore, come sono considerati i CFU? Ad ora, non è dato sapere.
3) Così, docenti e Ds cercano di arrabattarsi tra bozze e circolari che spesso si contraddicono e non forniscono indicazioni operative chiare. La stessa Nota è stata emanata per anticipare alle scuole la possibilità di iniziare a pianificare le attività di formazione. Come dire: voi partite, poi vi diremo bene come fare. Non diversamente ha operato il Miur sulla questione del cosiddetto bonus per il merito. Ci chiediamo se non sarebbe stato meglio pensare a forme di sperimentazione, da estendere, una volta validate, a tutto il territorio, piuttosto che utilizzare tutte le scuole come cavie della sperimentazione.
Nonostante queste difficoltà, le scuole hanno fatto partire il piano di formazione, che — a buon conto — contiene anche alcune novità.
La prima consiste nel fatto che il piano è organicamente strutturato, e lo si vede nella configurazione coesa e a cascata: le scuole, sulla base delle esigenze formative espresse dai singoli docenti, progetteranno e organizzeranno, anche in reti di scuole, la formazione del personale. Le attività formative delle singole scuole devono poi essere coerenti con le finalità e gli obiettivi posti nel Pof, tenere conto delle azioni individuate nei piani di miglioramento (Pdm), ed essere connesse con le priorità dei piani nazionali.
Come si vede è proprio un’organizzazione molto serrata. Dove — sulla carta — i tasselli si incastrano con precisione millimetrica: ma nella realtà è proprio così? È proprio vero che le esigenze formative dei singoli docenti si inseriscono nelle priorità del Rav, negli obiettivi del Pdm, rispondendo alle priorità del Miur?
Ci chiediamo: quante scuole sono effettivamente partite dall’ascolto dei bisogni dei docenti per formulare i loro piani di formazione? Forse non sarebbe stato neppure possibile incrociare i bisogni degli insegnanti con le priorità del Pdm e del piano nazionale!
È questa “supposta” coincidenza di obiettivi e bisogni che non ci quadra. E che sta solo nella testa dei funzionari del Miur. Anche se l’impianto è “organico”, non perde un colpo: ma solo sulla carta.
Nella realtà, i dirigenti scolastici hanno dovuto far quadrare il tutto, partendo innanzitutto dalle priorità del Rav: e questo ha complicato la faccenda. Perché il Pdm potrebbe imporre una progettazione formativa non coincidente con le esigenze dei singoli insegnanti. E’ vero che i docenti potrebbero frequentare corsi che liberamente scelgono: ma sarà un po’ difficile eludere la partecipazione ai corsi voluti dalla scuola.
E infatti, non pochi sono i docenti che frequentano i seminari progettati dalle scuole solo per comodità, o per ottemperare al dettato della legge, ma senza alcun interesse specifico. E non pochi sono gli insegnanti che seguono più corsi possibili perché, per i più giovani, la chiamata diretta dipende anche dalle competenze specifiche certificate dai corsi; mentre per i docenti di ruolo, la frequenza può diventare un elemento valutabile per il merito. Ma si tratta di una partecipazione spesso solo subita.
Così, ancora una volta, la forza propositiva del piano — perché la formazione è un punto qualificante della professionalità — rischia di vanificarsi e di ridursi ai “crediti” da certificare sul proprio portfolio formativo.
Per questo, tre possibili indicazioni operative.
1) Occorre che i docenti assumano una posizione attiva e propositiva, ad esempio proponendo azioni formative effettivamente espressione dei loro bisogni ed esigenze.
2) È auspicabile che i Ds valorizzino le richieste dei singoli o dei gruppi di docenti e anche le loro attività didattiche. Ad esempio, in alcune scuole, i corsi sono tenuti dai docenti stessi, che espongono criticamente il loro lavoro innovativo, svolto in classe, fornendo esempi significativi ai colleghi (è questa una modalità prevista dal piano nazionale). La condizione perché questo possa avvenire proficuamente è la presenza (come in ogni azione formativa) di un supervisore esterno, un formatore, insomma, che possa progettare e guidare il lavoro: il rischio, altrimenti, sarebbe quello di corsi fai-da-te improvvisati e improduttivi. Un vero far west.
3) Sarebbe necessario che il Miur avviasse la messa a regime del nuovo sistema digitale per la gestione della domanda e dell’offerta di formazione, e così fornire, on line, l’offerta formativa delle associazioni qualificate e accreditate. In questo modo — e l’opportunità è veramente interessante — ogni docente e ogni scuola potrebbero vagliare l’offerta formativa nazionale e scegliere nella massima libertà, tra gli enti qualificati e accreditati.
4) Da ultimo: ci piacerebbe che il ministero distribuisse i fondi stanziati per le azioni formative territoriali, alle scuole, perché i fondi sono molto risicati. E quindi, invece di foraggiare i “soliti noti”, rendere il mercato della formazione totalmente libero, fruibile, plurale e fruttuoso. Ma forse questa è solo un’utopia.