L’altro giorno, in un tema di una mia alunna di seconda media, ho letto questa frase: non voglio essere qualcuno per il mondo, ma voglio essere il mondo per qualcuno. Mi ha confermato che ha trovato questa frase sul web e forse non l’ha usata solo come uno slogan, forse l’ha aiutata a dire quello che voleva dire in quel momento, ma non aveva ancora trovato le sue parole per dirlo. Qualche giorno fa, proprio su questo giornale, qualcuno ricordava che è la realtà, sono le esperienze che insegnano a scrivere. E che a partire da questo si può, anzi si deve, proporre un lavoro nuovo nelle classi di ogni scuola che consenta di superare la difficoltà, anzi l’incapacità di scrivere ormai conclamata e certificata anche dai docenti universitari. 



Ricordando sempre su queste pagine la figura di Todorov e il suo splendido La letteratura in pericolo, mi sono permesso di sottolineare come il grande studioso rinvenisse nella distanza tra la scuola e il mondo, tra lo studio e l’esperienza umana di ogni giorno, il vero motivo dell’insignificanza della letteratura, la disaffezione alla lettura e alla scrittura da parte dei giovani. Ma, alla luce anche del suo pensiero, non  credo che sia sufficiente dire che le esperienze insegnano a scrivere. 



Mettiamola così, come la mia esperienza di insegnante e di scrittore mi dice ormai da tempo: le esperienze sono le cose che viviamo, le situazioni, i rapporti, le gioie e le difficoltà, gli amori e i disamori, ma scriverle, e anzi anche solo parlarne, significa dare un nome a queste cose, come per esempio ha continuato a dirci Mario Luzi nei suoi saggi e nelle sue poesie. Ma i ragazzi, gli studenti mancano già in questo primo passaggio e non perché non vivano le esperienze, ma proprio perché vivono cose che non sanno chiamare per nome: quanta povertà nella descrizione anche di un amore o di una passione che pure riempie loro gli occhi e il cuore. 



Non è sempre una loro colpa, anzi non può esserlo quasi mai: hanno bisogno di incontrare un’altra esperienza che nomini, che abbia già nominato prima di loro quanto loro vivono ora. Del resto, come confermano la mia alunna e il suo tema, le parole degli altri diventano già le parole con cui chiamano le cose. Peccato che abbiano talvolta solo qualche canzone, qualche rapper o qualche pagina di aforismi dove andare a cercare. 

Questo è il posto, il compito della scuola: non è vero che automaticamente sanno scrivere sulla loro esperienza, hanno bisogno di un aiuto, di un lessico delle cose e dei sentimenti. E il lessico non basta, anche perché la nominazione è già un giudizio; serve allora costruire, dare una forma a queste parole, serve una grammatica e una sintassi.

La sintassi è il modo in cui io metto insieme il mondo, è l’espressione del mio giudizio, attraverso questa costruzione formulo il mio pensiero: questo è bianco, questo è rosso, questo è buono e questo no. Attraverso il lessico e la sintassi trovo la via per pensare bene e comincio anche l’avvicinamento allo scrivere bene. 

Ciò significa che l’insegnamento della scrittura si riduce all’insegnamento delle regole grammaticali? No, guai a pensare che scrivere sia una cosa così astratta, formale. La scuola deve arrivare fin qui, dentro la povertà di un vocabolario che nega addirittura ai ragazzi di vivere davvero quello che vivono, deve cominciare a rileggere l’esperienza attraverso le parole di altri che le hanno già provate e scritte, deve proporre continuamente il paragone tra la mia esperienza di giovane e quella dei grandi geni della letteratura o dei più vicini scrittori di oggi che hanno così ossessivamente cercato le parole per raccontarsi e raccontare il mondo. In questo paragone, in questo rapporto può nascere un diverso interesse per la parola e la scrittura.

Ma ancora non basta, come ancora insegnava Todorov: la parola è una via per stare con gli altri, il destino della parola, il suo compito è quello di comunicare. E allora, anche qui, quanti disastri ha collezionato una certa tipologia di scuola e anche di università: hanno ridotto la comunicazione  a informazione, a tecnica asettica di controllo, mentre invece la comunicazione è il gesto attraverso cui noi mettiamo insieme i doni, io ti do un pezzo di me, tu mi dai un pezzo di te, anzi ti regalo, con questo, tutto me stesso. Ma allora perché ci sia la parola e il desiderio di imparare a scriverla, ci devono stare due che si cercano. O anche uno che si cerca, come avviene per esempio nel caso dell’autobiografia. Ci deve essere qualcuno che ascolta, un posto in cui le mie parole possono trovare una casa. 

Come fa un tema, un commento, un compito di letteratura a rispondere a questo? Può, attraverso quel lavoro di paragone continuo tra la letteratura e l’esperienza, tra una parola già scritta e una che si deve scrivere ancora, attraverso quel lavoro continuo sul lessico delle cose e dei sentimenti, della loro sintassi. Questo significa che io ti racconto la mia giornata e allora sono capace di scrivere? Che ti racconto il mio amore e sono capace di scrivere? No. Provo invece a dire quello che può succedere già oggi in una classe di questa nostra scuola, che già succede, per fortuna, in qualche classe di questa nostra scuola: vediamo il film Mission, con De Niro, c’è una colpa grossa come una casa che sta sulle spalle di un uomo; questa colpa viene tagliata via proprio da chi quell’uomo ha sempre violentato e derubato. Quell’uomo sente la forza di un perdono che lo trasforma, che gli cambia la vita. Che parole dice a me che sto seduto nel banco? Quale esperienza ho vissuto così che ancora non sapevo nominare e che adesso ho rivisto nella faccia di un altro? E in essa mi sono riconosciuto, specchiato? 

Oppure, pensiamo a quando Ungaretti racconta delle sue quattr’ossa nell’Isonzo e dice la frase più decisiva sul male che lo attraversa: “il mio supplizio è quando non mi credo in armonia”. C’è qualcuno che dice così il dolore, che dice così la possibilità di una rinascita? Come trovo adesso io le parole per ridire quello che un poeta mi ha messo davanti? Nella scuola si può, anzi si deve, arrivare a dire l’esperienza. Non si può partire da lì proprio perché, per i ragazzi, è ancora la cosa più difficile del mondo. Ma la scuola sta lì per questo. Soltanto dentro questo lavoro insegno a pensare, a parlare, a scrivere. E i ragazzi arriveranno anche a scrivere un commento, una parafrasi, un’interpretazione del testo che nemmeno immaginavano, sapranno fare analisi, lanciare ipotesi, affrontare verifiche. 

Come diceva Lucio Fontana ai suoi allievi nell’atelier di Milano negli anni 60, per fare un quadro ci vuole guardare il mondo: preoccupatevi di guardare il mondo, di guardarlo dritto negli occhi, diceva. Poi l’artista prende i pennelli, la materia e la fa diventare una lingua: o c’è una lingua, o si scrive e si riscrive il mondo, oppure non c’è niente. Ma per scrivere e riscrivere c’è un lavoro da fare, c’è tutto quel lavoro attraverso il quale passa il mio sguardo sul mondo, attraverso il quale ciascuno troverà le sue parole per dire il mondo.

Per meno di questo non vale la pena di insegnare. Speriamo che ce lo lascino fare ancora; che capisca, chi deve, università o istituzioni, che mentre piange perché gli studenti non sanno scrivere, prepara curricula, corsi, aggiornamenti in cui si parla di competenze, si sezionano gli apprendimenti, si sviscerano approcci multimediali e declinazioni didattiche puramente formali per alunni in difficoltà che forse non faranno che aggravare le cose. Pianga se stesso, quindi, perché è causa del suo male: anche un proverbio, scontato quanto si vuole, può darci le parole per dirla, questa deriva di una scuola che non ascolta, che imperterrita viaggia verso una continua distrazione, lontana dal mondo, dall’esperienza, dal cuore ferito di chi deve crescere davvero.