La XVI edizione de I Colloqui Fiorentini – Nihil Alienum, dedicata a Luigi Pirandello col titolo “Ora che il treno ha fischiato…”, si terrà nei prossimi 2-4 marzo a Firenze, con la partecipazione di 3.500 docenti e studenti da oltre 220 scuole da tutte le regioni d’Italia e quest’anno anche dall’Inghilterra.



Perché Pirandello? “Crisi dell’uomo moderno” è ormai nelle scuole, nei manuali, nelle teste degli studenti, negli schemi dei docenti sinonimo di Luigi Pirandello: l’inettitudine dell’uomo, il relativismo, la frammentazione dell’io che dietro la maschera non trova più un volto e si scopre Uno, nessuno e centomila, la sua impossibilità ad essere certo di alcunché. Tutto questo è sintetizzabile con l’espressione “crisi dell’uomo moderno” e questa espressione è ormai convenzionalmente associata al nome dello scrittore agrigentino.



“Una delle poche cose, anzi la sola cosa ch’io sapessi di certo era questa: che mi chiamavo Mattia Pascal”. Con queste parole inizia il suo romanzo più famoso, ma tutti ormai sanno che anche quest’unica, misera certezza alla fine della storia è destinata a sfumare, assieme alla perdita totale di identità del protagonista, che diventerà il Fu Mattia Pascal.

Ma quello che sfugge ad una lettura superficiale o affidata, nel peggiore e più diffuso dei casi, alla doxa dei manuali, è il significato più originale e provocante di questa espressione. Mi spiego meglio: la “crisi dell’uomo moderno” sembra una condizione atemporale, astorica e soggettiva, che caratterizzerebbe alcuni scrittori, Pirandello in primis, e che, a causa loro, avrebbe poi influenzato il secolo XX fino a travalicare nel nostro.



In sostanza sfugge la dimensione storico-culturale di questa crisi, per il semplice motivo che i manuali, i saggi, la critica di Pirandello, quasi mai si pongono una domanda semplice, così semplice da sfuggire completamente allo sguardo: la “crisi dell’uomo moderno” è crisi rispetto a cosa? O altrimenti: cosa va in crisi nelle pagine di Pirandello? 

Crisi, come è noto, è termine greco che significa cambiamento. Allora la crisi dell’uomo moderno è un cambiamento, ma rispetto a che immagine di uomo precedente? Normalmente a questa domanda si risponde con il crollo delle certezze, la perdita della verità e le altre caratteristiche sopra elencate. Ma questa certezza che si perde, su cosa si fondava? Questa verità impazzita in cosa consisteva?

Porsi tali domande e cercare le risposte, ci permette di introdurci nella giusta prospettiva di Pirandello. Egli infatti denuncia la crisi dell’uomo moderno proprio perché queste domande gli sono scoppiate in cuore, come reazione alla weltanschauung, all’ipotesi di senso della vita che il suo contesto storico e culturale gli proponeva e dentro la quale era nato. 

E che immagine di uomo e di esistenza gli presentava il suo tempo? 

Commentando la scoperta della radiotelegrafia da parte di Guglielmo Marconi e l’orizzonte meraviglioso che la scienza sembrava spalancare per il destino dell’uomo, Pirandello scrive, nel saggio Rinunzia del 1896:

“Guardiamoci bene addentro, esaminiamoci, e tentiamo di trovare la spiegazione di questo enorme contrasto [tra conquiste della scienza e disgregazione della coscienza, ndr]. […] Così [nonostante i traguardi della scienza] siamo rimasti nel mistero e senza Dio, voglio dir, senza guida. Abbiamo, negando, distrutto; e quindi dichiarato la nostra impotenza d’affermare, rinunziando a quel problema che è in fondo della più alta importanza per noi. La filosofia moderna ha voluto quasi esprimer la terra dal vuoto che la circonda […] per considerarla come per se stessa esistente, piccola patria di piccoli enti, i quali dovrebbero intendere a procacciarsi quaggiù la possibile felicità, poggiando non più in cielo, ma in terra i propri ideali, senz’altro dimandare”.

Per dirla con Nietzsche, “Dio è morto” e l’uomo ha scommesso tutto sulla possibilità di sostituirsi a lui. La cultura a cavallo fra otto e novecento è tutta in questa scommessa. 

Dice Baldacci a proposito di Giovanni Papini: “Lo scandalo della filosofia moderna” era che tendeva “a stabilire relazioni tra soggetto e oggetto che prescindessero dall’ipotesi di Dio. Papini specula su tale scandalo e conclude che il terzo fattore deve essere identificato con uno dei due rimasti in gara: o col mondo o con l’Io. O Dio sarà il mondo o l’Io sarà Dio.” 

Tutta la cultura dell’ottocento, figlia dell’Illuminismo, nelle sue varie flessioni in fondo era stata proprio questa sfida titanica: che l’uomo fosse Dio, cioè l’origine, il significato e il destino dell’esistente. Illuminismo, Romanticismo, Idealismo, Positivismo in realtà sono tutte oscillazioni di un pendolo che ha come perno comune proprio questa concezione: l’io è il solo, assoluto, significato dell’esistente e non deve cercare risposte se non all’interno del proprio orizzonte. In questa ottica il superuomo nietzschiano con le sue declinazioni dannunziane, e l’inetto sveviano e pirandelliano sono solo le due facce della stessa medaglia. Sia che trionfi, sia che fallisca, l’uomo è il solitario divus del cosmo, di cui deve garantire il senso e se fallisce, crolla tutto, nulla è più reale, nulla ha più significato. E questa sfida ha attraversato tutto il novecento ed è centrale ancora oggi. 

Basti pensare che Steinbeck, nel suo discorso di accettazione del premio Nobel nel 1962 (dopo la catastrofe della seconda guerra mondiale e dei totalitarismi) ancora può affermare tranquillamente: “Avendo assunto un potere simile a quello divino, dobbiamo cercare in noi stessi la responsabilità e la saggezza che una volta chiedevamo alle divinità con le preghiere”.

La crisi denunciata da Pirandello non è dunque innanzitutto un’affermazione assoluta sull’uomo, quanto una sentenza sulla pretesa tutta storica della sua epoca. Prima che essere una conclusione definitiva sull’esistenza umana è innanzitutto un attacco alla sua congerie filosofico-culturale. Meglio si comprende in questa ottica la sua spietata critica alle conquiste del progresso e della tecnologia: nel suo attacco alla macchina, alla città, alla velocità, alla meccanizzazione della vita (si leggano le bellissime pagine dei Quaderni di Serafino Gubbio operatore) ad una mente tutta filosofica e spirituale come quella di Pirandello non può interessare il livello meramente ecologico, sociale o politico della questione. Pirandello vi legge invece la crisi di questa grande illusione: l’uomo aveva brandito il potere tecnologico e scientifico come l’arma per conquistare il cielo, per elevare l’uomo al suo massimo splendore e ne era scaturito un mondo disumanizzato, in cui l’uomo aveva perso la dignità perfino delle proprie tragedie: “Maledetto sia Copernico!” grida Mattia Pascal nella famosa seconda premessa del romanzo. “Copernico, Copernico […] ha rovinato l’umanità, irrimediabilmente”, perché, leopardianamente, ha svelato all’uomo la sua marginalità assoluta nell’universo. E allora cosa diventa la storia degli uomini? “E che valore dunque volete che abbiano le notizie, non dico delle nostre miserie particolari, ma anche delle generali calamità? Storie di vermucci ormai, le nostre.” (Il Fu Mattia Pascal, Premessa seconda).

“Storie di vermucci ormai…”. Questo “ormai” svela tutto il carattere storico della riflessione pirandelliana: oggi, dice lo scrittore, l’uomo è un nulla, e la sua è una storia di vermucci. 

Ma fintanto che era perdurata l’illusione della sua grandezza (fintanto, direbbe Alselmo Paleari, che Oreste resta convinto che il cielo di carta del teatrino sia autentico, cfr. Il Fu Mattia Pascal, L’occhio e Papiano), l’uomo aveva amato, odiato, costruito, combattuto, sperato, ucciso, trionfato, fallito dentro un universo pieno di senso, di destino, di dignità, di verità. Era vero il suo amore, vero il suo odio, vero il suo dolore.

È secondario, da questo punto di vista, che Pirandello, come il suo maestro Leopardi, considerasse quella dei secoli precedenti un’illusione, perché tale illusione riempiva di senso la vita e così essa poteva essere felice. Veramente felice.

Che fosse un’illusione è anch’esso un giudizio che egli si è trovato addosso, portato dal suo momento storico, ma è significativo che Pirandello giudichi imprescindibile per la felicità dell’uomo l’idea di un cielo vero, di un Dio, di una natura oggettiva, di una “signora realtà uguale e immutabile” dirà in Uno nessuno e centomila.

Il relativismo di Pirandello è più una destrutturazione di un mondo che ha fallito, quindi un’operazione più rivolta al passato, che una prospettiva sull’uomo che egli apre per il futuro.

Certo, questo non significa che Pirandello si sentisse immune, estraneo alla crisi e al relativismo da lui denunciato o che avesse una alternativa positiva e praticabile; ma come ogni grande scrittore, egli intuisce un’altra dimensione e in qualche modo misteriosamente vi partecipa; c’è nelle sue pagine un “Ma…” che racconta un’altra storia.

 

(1 – continua)