Expertise dovrebbe essere qualcosa di tendenzialmente opposto ad ignoranza. Così mi ha colpito l’aver letto contemporaneamente due articoli che fanno perno proprio su questi termini per invocare una maggiore consapevolezza nella cultura e nell’educazione.
Due articoli assai diversi per sede, estensione e destinatari. Il primo è di Giorgio Vittadini ed è uscito di recente su La Provincia di Como — un quotidiano locale che spesso, negli approfondimenti, non sfigura davanti a molti giornaloni nazionali — con il titolo “Abilità, valori e ideali. La scuola ignorante”.
L’altro, di Tom Nichols, è sull’ultimo numero di Foreign Affairs e si intitola “How America lost faith in expertise – and why that’s a giant problem”. Nichols è un importante studioso di geopolitica che su questo tema aveva già scritto altri saggi, e il cui prossimo volume (The death of expertise, appunto) ha stimolato il dibattito prima ancora di uscire. Partirei da questo per discutere molte assonanze che mi sembra di vedere tra i due punti di vista, senza forzare il pensiero degli autori.
Il tema che Nichols affronta è la sempre crescente tendenza dell’uomo della strada non soltanto ad esprimersi con una presunta autorevolezza su qualunque argomento, ma a diffidare a priori dell’opinione degli esperti, ritenendosi sufficientemente qualificato per poterlo fare.
Dalle nostre parti lo vediamo ogni giorno: se una volta ci limitavamo ad essere tutti Ct della nazionale, oggi siamo diventati anche dietologi, economisti, climatologi e gourmet. Negli Usa questa tendenza porta ad una progressiva deriva verso un settarismo del pensiero deviante, ed anche la devastante campagna presidenziale dei mesi scorsi ne sembra una conseguenza.
Facile vedere la connessione con la pervasività della Rete come dispensatore e comunicatore: non, sottolinea Nichols, che l’errore stia nelle Rete in sé, come qualche apocalittico a volte sostiene, ma perché fornisce gli strumenti a chi cerca non il confronto, ma una conferma ai propri preconcetti, come una scorciatoia per l’erudizione. Perché, a differenza di una biblioteca dove può esistere un ordine, è sostanzialmente un semplice deposito in cui le ricerche sono guidate da algoritmi tutt’altro che imparziali nel riconoscere ed assecondare i gusti del navigante. E dove sempre più domina la logica del “gruppo”, aggiungerei.
L’atteggiamento dell’uomo qualunque è così passato da un’apprezzabile disposizione critica, in cui si confrontano le proprie opinioni alla ricerca di una conoscenza meno superficiale, fino al ritenere le proprie opinioni autosufficienti e ad un’aperta sfiducia e pretesa superiorità nel confronti dell’esperto. Con tutte le sfumature del complottismo, di cui il movimento contro i vaccini è uno dei più drammatici esempi. Ritenendo quindi non che l’esperto possa sbagliare, il che è evidente, ma che sbagli quasi per definizione.
E in questo l’autore — non trascuriamolo — rileva un serio rischio per la stessa democrazia repubblicana, almeno così come si è delineata da Franklin in poi, nel momento in cui questo scollamento porta al prevalere di tecnocrazie incontrollate e tutt’altro che liberali.
Riflettendo su una delle possibili cause di questo degrado mi viene il collegamento all’altro articolo. Se è vero che questo divagare in una gnosi parallela, in cui tutti si ritengono dotti medici e sapienti, è forte soprattutto tra gruppi culturali abbastanza scolarizzati, forse è proprio il modo in cui si insegna, e si valuta l’apprendimento, che può causare un affievolimento del senso critico ed uno svilimento dei valori sociali dell’educazione.
La tesi principale dell’intervento di Vittadini è la necessità di una scuola che si svincoli da un sempre crescente nozionismo: che piace sopratutto agli studenti, alla faccia di quant’era deprecato quando eravamo ragazzi noi.
Riprendendo le analisi del Nobel per l’economia James Heckman (è di Vittadini l’introduzione a J. Heckman, T. Kautz, Formazione e valutazione del capitale umano, Il Mulino, 2017) sugli squilibri dei sistemi educativi, considera gli esiti non certo incoraggianti di modelli di valutazione sempre più legati ad una specifica prestazione, definita in termini asettici, svincolata dal contesto di ogni singola aula, ed incarnata tipicamente nei test chiusi a risposta multipla. Guarda caso, quelli prevalenti nell’istruzione americana, che poi porta alle deviazioni di cui sopra. Una scuola che ti convince che quando hai superato il test sai già tutto quel che ti serve, alla faccia degli esperti.
La contrapposizione tra scuola delle conoscenze e delle competenze è spesso travisata da chi lascia supporre che le seconde escludano le prime: ma via. Non si può avere competenza senza un solido bagaglio di nozioni; che devono necessariamente esserci, ma come strumenti, non come fini. Ne ho parlato nei giorni scorsi con dei ragazzi di prima, dove puntiamo al consolidamento di un metodo ed alla comprensione degli obiettivi, piuttosto che all’elencare i capitoli del libro di testo. Dove cerchiamo di vedere che la necessità ed il desiderio di accumulare conoscenze sempre maggiori sono la conseguenza della passione verso qualcosa, non una spiacevole necessità imposta dal desiderio di diventare soltanto dei cembali sonanti. Non ha senso imparare a memoria nozioni come il compleanno, l’indirizzo ed il colore preferito di un perfetto sconosciuto, ma diventa naturale farlo quando pensi ad una persona che ti appassiona e con cui vuoi essere sempre più in sintonia.
Senza spacciarmi per un teorico dell’apprendimento, sono però sempre più convinto che oggi sia ineludibile una didattica ricorsiva, in cui si costruiscano e si sviluppino argomenti secondo il modello delle volute di una chiocciola, e non possa più essere il tempo di una didattica lineare, nella quale si prende il “programma”, possibilmente nella versione compressa nel Libro di Testo, e lo si svolge sequenzialmente dall’inizio alla fine. Peggio ancora, se lo si fa in modo “modulare”, ovvero introducendo un argomento in modo più o meno autoconclusivo, coronato dalla relativa “verifica” che si concentra solo su quegli specifici argomenti. Dove se un argomento è “finito” lo è nel senso di “chiuso e dimenticato”, non al contrario “ormai pienamente acquisito ed entrato a far parte della mia cultura a lungo termine”. Eppure lo si sente ancora proporre.
Una didattica di questo tipo poteva forse andare bene per ordinare, arricchire e integrare le conoscenze di una persona che aveva già una struttura di base, dalla quale germogliassero — appunto — delle almeno embrionali competenze; poteva andar bene per un triennio conclusivo di scuola superiore quando, nei 10 anni precedenti, l’accumularsi delle conoscenze, e le successive esperienze portate dalla crescita, davano un qualche livello di autonomia nell’apprendimento. Poteva certamente avere senso all’università, quando accedervi implicava un percorso impegnativo, consolidato e certificato, non la maturità col 99,5% dei promossi. E poteva averlo proprio perché l’approccio della prima educazione aveva frequenti spazi ricorsivi, in cui biennio e triennio delle elementari, triennio delle medie, biennio delle superiori erano dei mini-cicli che costruivano ognuno sopra le basi del precedente. E lo studente — non dimentichiamolo — aveva coscienza della propria crescita perché era in relazione diretta con chi gli stava vicino, con ruoli sociali riconoscibili (giusti o sbagliati che fossero), non con entità immateriali da cui ci si sgancia con un click.
Ma oggi, piaccia o no, questo substrato non c’è più: e quindi la logica dei programmi, con il loro corollario di “saperi minimi” certificati dai test, non ha né senso né utilità.
Nessuno strumento è sbagliato a priori, a patto di saperlo usare, nemmeno il test a risposta multipla (che pure è così difficile da usare bene): lo diventa quando da strumento si trasforma in idolo, che prima costruiamo e cui poi ci genuflettiamo, creando quel teaching for the test che già funziona poco per l’esame di scuola guida.
In una scuola che rifiuti gli idoli, l’ignoranza cui pensa Vittadini come valore è forse quella di Socrate, o di Ulisse che parte per il folle volo: la consapevolezza che tanto maggiore è la propria conoscenza del mondo, tanto più si percepisce l’immensa vastità di ciò che non sappiamo ancora, o forse mai. La consapevolezza, o appunto la competenza, di chi ha l’orgoglio di ciò che ha imparato a costruire ma anche l’umiltà di ciò che non conosce e verso cui, pure, sa di dover tendere. Il contrario dell’erudizione implicita nell’idea di “dobbiamo finire il programma”, come se di qualunque sapere si potesse mai arrivare all’ultima pagina. Quando invece, limitandoci al puro aspetto funzionale, si deve insegnare soprattutto la capacità di formarsi ed aggiornarsi per tutta la vita. E’ l’estremo messaggio di Gaber: non insegnate ai bambini…
Expertise, già. Nel linguaggio più comune spesso lo si traduce con perizia, come quelle sull’autenticità delle opere d’arte. E appunto perizia era il termine usato illo tempore per indicare le competenze in uscita dalla scuola. Come in quel termine, “perito industriale”, che svetta sul mio diploma di Istituto Tecnico: esperto, competente; formato in una scuola che non cura soltanto l’addestramento o l’erudizione ma che va al di là di entrambi. Mi spingo troppo negli equilibrismi verbali, se porto la metafora fino a pensare ad una scuola che nelle competenze, e non nel nozionismo, cerca l’autenticità della persona?