Febbraio volge al termine e, per chi lavora a scuola, con un certo sollievo: scrutini fatti, percorsi didattici ormai impostati; pare di poter tornare a una pacata routine. E invece accade qualcosa che ha la forza di rimettere tutto in discussione, di riporre con veemenza domande cruciali sull’insegnamento e sull’educazione. Due convegni, uno intitolato “L’italiano nella scuola secondaria di primo grado. Scrittura, grammatica e lessico”, organizzato da Asli scuola in collaborazione con l’Università Cattolica a Milano, l’altro è il convegno annuale della Cdo opere educative Foe che a Pacengo ha riunito i direttori e gli amministratori di 500 scuole paritarie. Sorprendente in entrambe le situazioni, assai differenti per tema e pubblico, la comunanza della problematica affrontata. Ovverosia il bisogno educativo dei nostri giovani, che si manifesta tanto nell’urgenza di riappropriarsi consapevolmente e pienamente della propria lingua, quanto nella necessità di incontrare adulti capaci di mettersi al servizio della crescita della loro persona con passione e professionalità. E in entrambi i convegni non si è — finalmente — respirato l’invito a cambiare didattica in nome di strategie vendute come risolutive per scuotere gli studenti dall’indifferenza e dall’inerzia, spesso lamentate pressoché invincibili da chi si occupa di educazione. Si è invece potuto assistere a un intenso scambio di esperienze di una nuova didattica già in atto.



Paradossalmente in entrambi i convegni sono state presentate come capaci di mettere in moto gli studenti modalità didattiche assai differenti, si potrebbe dire a tratti contradditorie. Eppure nella maggior parte dei casi efficaci a favorire l’apprendimento sia di conoscenze disciplinari sia di aspetti importanti della personalità, i cosiddetti cognitive e non cognitive skills, insomma. Quale allora il fil rouge di tali esperienze? Si potrebbe sinteticamente dire il metodo da esse seguito: un intelligente, appassionato, insistente realismo. 



Un realismo che non si riduce a pragmatismo, di cui soffre la didattica quando è attenta solo agli aspetti pratici e si illude di poter istruire ed educare addestrando gli studenti a replicare delle procedure. Ogni insegnante sa che quanto non è appreso teoricamente non diviene realmente parte del patrimonio dello studente: ciò che non è stato compreso, capito, non può dirsi esperienza dello studente. L’esperienza non coincide infatti con il provare qualcosa, ma con il divenirne consapevoli, con il comprendere e giudicare ciò che si è provato.

Essere realisti non significa neanche assumere un atteggiamento rinunciatario. Una didattica non è realista perché l’insegnante decide di facilitare i contenuti e abbassare gli obiettivi per non demoralizzare lo studente. Qualsiasi studente, qualunque sia la sua capacità di apprendimento, ha bisogno di fare un’esperienza conoscitiva coinvolgente perché piena di senso e di bellezza. La portata della sua ragione infatti non coincide con la somma delle sue abilità. 



Realismo non è sinonimo di positivismo: non è l’accumulo di dati irrelati che può muovere lo studente a interessarsi agli oggetti di conoscenza, bensì la scoperta che nella realtà vi è una “verticalità” che sola ha il potere di attirare ragione e affezione e di muovere la libertà dei giovani, come hanno messo in luce magistralmente alcune relazioni ai convegni, in primis quelle dei professori François-Xavier Bellamy e Giorgio Vittadini al convegno della Cdo opere educative.

Una didattica realista si esprime allora innanzitutto nella capacità dell’insegnante di tenere in dovuta considerazione i fattori della relazione educativa: sé stessi, la propria disciplina, lo studente, il contesto. Sé innanzitutto, perché occorre essere consapevoli di chi si è, di che cosa si afferma con parole e azioni, di che cosa è nelle proprie corde e cosa no; per essere autorevoli, cioè degni di essere ascoltati e seguiti, occorre credere in quello che si dice e competenti in quel che si fa. La propria disciplina, le domande con cui interroga gli oggetti di conoscenza, le parole e i concetti essenziali per introdursi in essa, i modelli teorici cui fa riferimento, i testi e gli strumenti che meglio possono presentarla agli studenti; occorre insomma riappropriarsi continuamente della propria disciplina per divenire maestri. Gli studenti, i loro desideri, le loro storie, ciò che realmente percepiscono delle parole dell’insegnante, i loro pensieri, le loro categorie, le loro difficoltà; perché per muovere l’interesse e la libertà di una persona è necessario che questa si senta innanzitutto ascoltata, presa sul serio. E infine il contesto in cui si lavora: non esistono strategie sempre valide e ovunque attuabili nell’insegnamento, le modalità non possono che essere flessibili, in base alle risorse che si hanno, ai vincoli imposti, ai tempi a disposizione. 

Un simile realismo nella didattica, di cui si è avuta ricca testimonianza nei due convegni, non può che nascere dalla certezza che la realtà abbia senso e che sia possibile accompagnare i propri studenti alla sua scoperta.