Perché un ragazzo grande chiede di essere sottoposto a un’osservazione delle abilità di apprendimento? Perché è diversa una diagnosi tardiva da una precoce, che generalmente avviene tra la seconda e l’inizio della terza elementare?

Questa riflessione nasce dall’osservazione del comportamento di ragazzi di terza media, prima o seconda superiore, valutati e diagnosticati ultimamente. Tutti descrivono un percorso faticoso fin da piccoli: “Non mi piaceva leggere, leggevo ma dovevo ritornare più volte sul testo, mi stancavo poi non ne avevo più voglia, non mi ricordavo i vocaboli nuovi, se mi leggevano sapevo tutto, scrivevo troppo, non ce la facevo, adesso non leggo più neanche i fumetti”.



La valutazione, si sa, descrive numeri in rapporto al gruppo dei pari della stessa fascia scolastica: sillabe al secondo, percentuale di-, risposte corrette rispetto a-.

La narrazione della storia scolastica, del cambio di insegnanti, della percezione della fatica personale e familiare, la constatazione del raggiungimento di competenze e abilità diverse a secondo delle materie aiuta a capire che le etichette di dislessia, disgrafia e discalculia non possono descrivere chi sono Luca, Maria e Andrea. 



La diagnosi dà un nome a una fatica reale ma non sempre permette al soggetto di ripartire con nuove forze e nuovi strumenti; spesso il soggetto si ferma a una condizione e definizione deficitaria di sé; non riesce a stare al passo con la classe, con il nuovo percorso di studi, con il suo desiderio di seguire un indirizzo piuttosto che quello proposto da altri.

Ogni dislessico ha in comune solo il riferimento nosografico e i valori che lo includono, ma questi indici non parlano di come si può aiutarlo a fare meglio. Lo Stato ha delegato anche ai centri privati la possibilità di fare diagnosi e l’obbligo delle tre figure indicate dalla legge (neuropsichiatra infantile, psicologo, logopedista), serve proprio per potenziare la descrizione di Luca, Maria e Andrea da differenti punti di vista. 



Alcune università italiane hanno istituito dei Servizi Dsa/sportello dislessia e Dsa, proprio perché la crescente consapevolezza su queste problematiche rende necessario aiutare ad affrontare gli studi universitari con attenzione alle strategie e alle caratteristiche di funzionamento psicologico e cognitivo degli adulti dislessici, anticipando i problemi pratici nel lavoro e nella vita sociale dove l’uso della lettura e della comprensione del testo sono dati per scontato.

Lo scopo è proprio rispondere in modo personalizzato alle singole esigenze, per interiorizzare un’esperienza di studio positiva e diversa, favorendo il benessere scolastico anche con l’uso di tecnologie informatiche e una didattica attiva e partecipativa.

Gli strumenti dispensativi elencati nelle diagnosi appaiono evidenti ma quelli compensativi sono da intendersi solo indicativi; la scelta e la loro realizzazione dipende, deve dipendere, dall’interagenza tra chi studia (lo studente), chi aiuta nello studio (familiare o insegnante di sostegno o di ripetizione), chi insegna (il professore) e il contenuto specifico della materia. 

Studiare è un verbo fatto di azioni che necessitano di determinazione, passione, volontà, tempo, ripetizioni, comunicazione, collegamenti, elaborazione e il cui senso è la soddisfazione personale. 

Il ragazzo dislessico deve sperimentarla soprattutto nello studio, uscendo dalla spirale negativa di pesantezza, mancanza di risultati, lavoro extra, tempi più lunghi, maggior controllo per correggersi, eccetera, fino all’abbandono e alla rinuncia.

Non è quindi possibile definire il metodo di studio come il risultato dell’uso e dell’applicazione di mappe, tabelle, schemi, accorgimenti lessicali, visualizzazioni, sperimentazioni, ricerche in internet, manipolazioni anche se tutto questo può concorrere e servire, secondo i tempi, le modalità e i diversi linguaggi richiesti delle singole materie, a formare il “proprio metodo” di studio, che si struttura anche secondo la personale architettura cognitiva del ragazzo. 

A qualcuno servirà vedere immagini e ripetere verbalmente, per altri sarà proficuo imparare a costruire mappe lessicali o cognitive, schemi, prendere e gestire appunti, ripetere da solo, ripetere a un altro, riscrivere, essere interrogato, e altro ancora; il fine sarà sempre condividere le proprie acquisizioni con l’altro, crescere anche se costa fatica, e i ragazzi dislessici ne fanno sempre più dei lori pari. L’importante è che non perdano la passione di modificarsi, perché apprendere è aggiungere conoscenze alle pregresse per rielaborarle in modo creativo e spenderle nella vita.