Nelle scuole la lingua italiana è trattata come avviene ad altre materie. In alcuni istituti docenti e studenti sono appassionati e motivati. In altri mancano la voglia o le capacità di insegnare e di apprendere. Infine, vi sono luoghi nei quali non accade nulla: si entra e si esce. Ogni scuola è caso a sé. La valutazione delle competenze a volte si fa, a volte no. Chi controlla spesso preferisce lasciar correre. Un’assoluzione non si nega ad alcuno. Tanto più che, fuori della scuola, ci sono quelli che pontificano su che cosa sia utile e che cosa faccia perdere tempo. Per chi sia pigro o incapace l’alibi è pronto: si dice che a scuola si insegnino molte cose inutili. Pare che lo affermino anche “gli esperti”, di cui molti sono accademici, politici, giornalisti.



Sembra che molti abbiano ignorato l’appello in difesa della lingua italiana, la cui ignoranza impedisce ai giovani di crescere umanamente, socialmente e professionalmente. Sotto sotto, tra i giovani (e non solo) si ritiene che la capacità di comprendere e di redigere testi non sia poi così importante nella vita “là fuori”: si pensa che siano competenze richieste a scuola, ma non nella società. È poi diffusa l’impressione che, da noi, sia sufficiente trovarsi al posto giusto nel momento giusto, magari avendo conoscenze importanti, amicizie altolocate (o bassolocate) e così via. 



Poiché la scuola è vista come luogo dell’apprendimento di cose inutili, si tende a concludere che non valga proprio la pena apprendere cose “che non servono”. Si è convinti che basti andare “su internet” e si trova già confezionato ogni testo utile. Perché secondo molti basta “scaricare” qualche documento, cambiare qualche dettaglio, et voilà, la pappa è pronta. Una generale accondiscendenza, nella società, accetta che si vada avanti in questo modo. Così, molti escono da scuola senza saper da dove iniziare per redigere un testo. Non pochi, peraltro, si spazientiscono persino a scrivere a mano — del resto, sono confortati da esperti per i quali in futuro basterà saper usare la tastiera, mentre sarebbe tramontata l’epoca della scrittura personalizzata. L’impersonalità al potere: riciclare testi altrui, pigiare tutti sugli stessi tasti producendo le medesime lettere dell’alfabeto. 



Vi è chi reagisce, magari cominciando dalla calligrafia: e si diffondono già le scuole di bella scrittura. Rispondono al desiderio di imitare ciò che a uno sguardo privo di pregiudizi appare ben fatto. L’arte della calligrafia, che tra l’altro piaceva a Steve Jobs ed è assai diffusa nel mondo, in occidente è uscita dalla scuola, perché oggi è diffusa l’impressione che ad ognuno spetti il diritto di fissare un proprio criterio di valutazione. Non vi sono criteri oggettivi. Per questo, si rivendica il diritto per ciascuno di inventarsi la propria norma della lingua.  

Solo che la realtà, prima o poi, arriva a batter cassa. Chi non è capace di capire un testo, e ancor meno è in grado di scriverne uno, dovrà cedere il passo a chi sappia fare questo — non solo: è pur breve il passo dall’ignoranza della lingua all’ignoranza della realtà, all’incapacità cognitiva. 

È curioso: si lamenta la decadenza linguistica e la mente va di solito ad accenti, apostrofi e altri aspetti dell’ortografia, forse perché in quest’ambito si fa poca fatica a cogliere l’errore e a trovare la forma corretta. Peraltro, a volte ci si imbatte in casi difficili: gli imperativi di darefare e stare vogliono l’apostrofo, l’accento o nessun segno particolare? (sulla vicenda, Aldo Gabrielli, erudito equilibrato, scrisse pagine godibili). Più facile è la vicenda degli accenti su perché cioè: uno è acuto, l’altro è grave, perché nell’italiano standard la ha pronuncia chiusa nel primo, aperta nel secondo caso; ma ai settentrionali piace dire perchè (Manzoni, nel Fermo e Lucia, scriveva così). Fino a qualche anno fa, chi trattasse queste faccende con garbo e simpatia per il lettore avrebbe potuto fare una discreta carriera come divulgatore. Oggi l’interesse è scemato, anche per via della difficoltà a comprendere di che cosa si stia discutendo (ma le pagine mirabili della Grammatica di Battaglia e Pernicone sono sempre lì, pazienti, ad attendere di essere consultate). 

Orbene, nella vita ci sono cose più importanti del plurale di provincia che perde la e diventa province (ma una volta c’era la “Cassa di Risparmio delle Provincie Lombarde”: come mai non c’è più?). Questo, almeno, è l’argomento usato da chi ha deciso di liquidare l’ortografia come roba inutile: si ritiene che, in certi casi, basti “il contesto” per distinguere camicie da camice. Grazie tante: lo sapevo anch’io. Però a me interessa far vedere perché si scriva in un certo modo: dietro a una scelta c’è una ragione, che aiuta a intravedere i criteri di formazione della norma linguistica. È vero che qual è senza apostrofo è cosa lunga da spiegare; vale tuttavia la pena farlo perché si invita a ragionare sui particolari. E il tutto è fatto di tanti dettagli. Chi non si allena a vedere le cose piccole non solo sarà incapace di vedere la complessità del mondo: non si preoccuperà neppure se non vede altro che un magma indifferente di qualcosa. A quel punto, egli sarà cotto a puntino sì da essere manipolato da chi, invece, legge, scrive, comprende benissimo. Per questo, è bene combattere questa deriva sociale e sostenere a gran voce il ritorno allo studio dell’italiano, a partire dalle minuzie dell’ortografia, rivelatrici di un ordine che va studiato, compreso e impiegato nella vita sociale e professionale. 

Del resto, siamo in un’epoca simile a quella della rivoluzione francese. Allora, l’insegnamento della grammatica fu come sospeso. C’era la rivoluzione, bisognava fare altro. Così, nel giro di qualche anno ben pochi erano in grado di scrivere comme il faut. Arrivò Napoleone e sistemò le cose. E se Vico avesse ragione?