Con la pubblicazione delle materie estratte torna di attualità il tema degli esami di Stato al termine della scuola secondaria superiore, la vecchia “maturità”, e si discute anche sulle caratteristiche che dovrebbe avere. Nella “storia infinita dell’esame di Stato” (rubo la definizione alla documentatissima storia delle scuola italiana di Nicola d’Amico), svolto per la prima volta nel Regno d’Italia nell’anno scolastico 1860-61, si è passati  da “disumano” a pura formalità”: pensate che nella sperimentazione del 1923-24, i bocciati furono così tanti che i genitori di tutta Italia si riunirono in comitati per fare ricorso al Tar, inteso come Tribunale Altezza Reale, per chiedere a Vittorio Emanuele III, in occasione del venticinquesimo di Regno, di “graziare” i candidati bocciati, ma il re, che non rischiava la gogna mediatica, rifiutò…



Dopo varie vicende, Giovanni Gentile nel 1924-25 mise a punto, con l’idea di rendere più rigorosa la scuola pubblica, un esame di maturità che attraversò con passo spedito mezzo secolo, pur essendo  così impegnativo da figurare in molti scrittori come un incubo ricorrente, anche se una serie di trasformazioni “alleggeriscono”, sia pure in modo confuso, la prova finale. Arriviamo così alla legge 119 del 1969, che interviene con profonde modifiche, innescando una serie di riforme che si sono susseguite in una incessante e probabilmente vana corsa verso la perfezione, sei solo negli ultimi vent’anni (1998, 2000, 2002, 2007, 2008, 2009). Il cui — forse — ultimo atto è contenuto nel decreto attualmente in discussione. 



E’ chiaro che in una così articolata (e confusa) vicenda, spalmata su 140 anni, dato che il primo “regolamento speciale per gli esami di licenza liceale” venne emanato nel 1877, si è visto tutto e il contrario di tutto: sono cambiati il punteggio (decimi, sessantesimi, centesimi), il numero e il tipo delle prove (scritte, orali, su materie obbligatorie o a scelta del candidato, in base a sorteggio, con una “tesina” su temi a scelta del candidato), i requisiti per l’ammissibilità, la composizione della commissione.

Il nuovo regolamento valorizza il percorso del triennio della secondaria? Nel 1877 si prevedeva che gli studenti che avevano avuto la media di 7/10 in tutte le materie in tutti gli anni di corso avrebbero potuto conseguire la licenza senza esame, e alla fine dell’Ottocento si doveva sostenere l’esame solo per le materie in cui la votazione dell’ultimo anno fosse stata inferiore ad otto. La media del sei? Il diploma si poteva ottenere anche con un’insufficienza, purché non fosse in italiano o in latino. Potrei continuare con gli esempi, ma preferisco limitarmi ad alcune considerazioni essenziali, partendo dal chiederci: ma a che cosa serve l’esame di Stato?



L’esame non si chiama più “maturità”, e dovrebbe aver perso quel carattere di rito di passaggio che gli ha assegnato la percezione comune, compresa la mitologia della “notte prima degli esami”, o del viaggio in Spagna o in Grecia, quasi a segnare la fine di una fase della vita per i giovani. Perso sulla carta questo scopo simbolico (ma ho l’impressione che sopravviva, magri incoraggiata dai media), per utilizzare il linguaggio burocratico del decreto “l’esame di Stato conclusivo dei percorsi di istruzione secondaria di secondo grado”, dovrebbe avere lo scopo di verificare “i livelli di apprendimento in relazione alle conoscenze, abilità e competenze proprie di ogni indirizzo di studi … anche in funzione orientativa per il proseguimento degli studi di ordine superiore ovvero per l’inserimento nel mondo del lavoro”. 

La funzione di selezionare chi non ha conseguito un livello di apprendimento sufficiente, oltre a non essere politicamente corretta, non esiste più, o meglio ha già ampiamente operato negli anni precedenti, producendo nella fascia di età 18-25 un numero di abbandonanti che resta ampiamente sopra il 15 per cento (l’obiettivo europeo è scendere sotto il 10). Se si riesce ad arrivare in quinta, le probabilità di conseguire il titolo sono superiori al 95 per cento, e vengono bocciati meno di cinque su mille degli ammessi. 

Le indicazioni che l’esame fornisce ai datori di lavoro sono risibili: ogni anno cambiano le materie oggetto di valutazione, e il punteggio conseguito è ampiamente discutibile. Le prove Invalsi dovrebbero garantire un minimo di stabilità alla valutazione degli apprendimenti, poiché prendono in considerazione sempre le stesse tre materie (italiano, matematica e inglese) e si basano su punteggi determinati in modo oggettivo, ma sono state attaccate (anche su queste pagine) sia con qualche ragione, sia per una perdurante ostilità verso la “quantificazione del sapere”. A parte le considerazioni spesso opportunistiche o ideologiche sull’abbondanza dei “cento e lode” in alcune regioni rispetto ad altre, la correlazione fra i punteggi ottenuti in test standardizzati, come Pisa, e voti assegnati dai docenti è bassa, e non c’è corrispondenza fra gli apprendimenti misurati e le intenzioni di proseguimento, e nemmeno fra l’indirizzo della secondaria e il tipo di corso scelto, mentre per ridurre gli abbandoni nel biennio dell’università, vicini al 20 per cento, sarebbe utile che ciascun corso di laurea accertasse le conoscenze dei candidati nello specifico settore di interesse, come avviene nella maggior parte dei paesi. 

Un elemento da non trascurare nel calcolo del rapporto fra costi e benefici è il costo di questo immane sforzo, che è all’incirca di 150 euro per ciascun candidato, benché la retribuzione dei commissari sia quasi risibile: va da circa 570 euro lordi per un commissario interno che svolge gli esami in una sede raggiungibile in non più di 30 minuti ai 3.519 euro lordi di un presidente che raggiunge la sede in tempo superiore a 100 minuti.

Il decreto prevede che le commissioni per due classi siano composte di sette persone a maggioranza esterna, il presidente e tre commissari, più tre membri interni per ogni classe. I commissari ed il presidente “sono nominati dal dirigente preposto dell’Ufficio Scolastico Regionale sulla base di criteri determinati a livello nazionale dal Ministero dell’istruzione, università e ricerca”, ministero che addirittura “assicura specifiche azioni formative per il corretto svolgimento della funzione di presidente”. Bisognerà tenere a bada gli aspiranti commissari, oggi talvolta ripescati fra i dannati della terra, per i molteplici rifiuti ricevuti dai membri nominati in prima battuta…

Sulla funzione orientativa dell’esame, i maggiori dubbi sono sollevati dal fatto che l’annuncio delle materie estratte ha come risultato immediato un accentramento (quasi) esclusivo su di esse, a prescindere dagli interessi e dalle attitudini dei ragazzi. La soppressione delle “terza prova”, su cui peraltro non mi pare sia stato fatto nessun tipo di valutazione, in favore di un ruolo ancora controverso delle prove Indire e di una valorizzazione dell’esperienza di alternanza, potrebbe essere positiva, anche se la qualità e la stessa disponibilità dell’alternanza è oggi ancora molto variabile nelle diverse situazioni, e quindi penalizza o favorisce alcuni rispetto ad altri. L’attribuzione dei crediti resta quantomeno macchinosa, mentre considero positivo che si tenga conto degli esiti dell’intero triennio.

Chiedersi, in conclusione, se l’esame di stato così come lo concepiamo abbia ancora senso, o sia preferibile sostituirlo con un attestato di completamento degli studi compilato dal consiglio di classe sulla base del rendimento nel triennio, documentato dai registri e dalle pagelle, sia per le materie curricolari che per le attività complementari, è però inutile, dal momento che è collegato al valore legale del titolo di studio, e quindi non può essere abolito. Le continue modifiche non risolvono la questione di fondo di una sostanziale inadeguatezza del modello, e le varie soluzioni escogitate nel tempo, frutto di una scelta aprioristica, non sono mai state sottoposte ad una verifica seria. Il lavoro da fare non è allora cercare una soluzione perfetta, che non credo esista, ma riflettere sul modo migliore per raggiungere quegli obiettivi che la legge prevede, e che nessun tipo di esame di stato in senso stretto può realmente conseguire, perché non se ne verifica il raggiungimento con una procedura puntuale, ma monitorando la progettazione e la realizzazione di un percorso formativo.