Lo schema di decreto legislativo sulla promozione della cultura umanistica, artistica e musicale (n. 382, trasmesso alla Presidenza della Camera il 16 gennaio 2017) andrebbe studiato nelle facoltà di giurisprudenza per far riflettere sull’uso distorto e di mera “immagine” ormai assunto da molti recenti provvedimenti legislativi nell’epoca dello storytelling e della “post-verità”, provvedimenti che, non rispettando più il ruolo e la funzione della “gerarchia delle fonti”, ribadiscono, senza alcuna sostanziale modifica, disposizioni normative ed amministrative già vigenti, al più introducendo aspetti “esortativi” — impropri per una legge — su materie che, come in questo caso, sono rimesse tra l’altro all’autonomia delle scuole.
Materie che, invece, più efficacemente, avrebbero dovuto essere oggetto di specifiche politiche di “sensibilizzazione”, accompagnate però da risorse finanziarie e professionali aggiuntive, attraverso semplici direttive ministeriali sull’azione amministrativa e/o sulla formazione, le quali, oltre ad essere lo strumento proprio dell’indirizzo e dell’orientamento dell’azione amministrativa delle scuole, sono in grado di fornire più ampie e pertinenti indicazioni metodologico-didattiche in relazione agli obiettivi formativi complessivi di ciascun indirizzo di studi.
Dire infatti che le scuole “possono organizzare” attività relative alla cultura umanistica, ribadendo ad ogni passo che all’attuazione del decreto “si provvede nell’ambito degli assetti ordinamentali, delle risorse finanziarie e strumentali nonché delle consistenze di organico disponibili a legislazione vigente” (art. 1, comma 4), è in sostanza una confessione di velleitarismo, in quanto si tratta di attività che si possono già svolgere, a normativa vigente, nell’ambito dell’autonomia delle scuole, e rispetto alle quali il decreto non fornisce, nella sua natura di strumento legislativo, ulteriori sostanziali incentivi.
Di più. Si tratta di attività che, ove ne ricorrano le condizioni, si svolgono già, ad esempio, con libera adesione da parte delle scuole, alle iniziative promosse dai gruppi di lavoro presieduti da Luigi Berlinguer sulla musica e sulla cultura scientifica. L’esperienza evidenzia, semmai, che il limite di tali attività è stato appunto costituito dai vincoli finanziari, ordinamentali e di organico “a normativa vigente”, limiti ribaditi puntualmente dall’attuale schema di decreto legislativo!
Il sistema di scaricare sulle scuole sempre nuovi obiettivi formativi aggiuntivi, senza riorganizzare complessivamente il curricolo per recepire equilibratamente le nuove esigenze, e senza fornire gli strumenti professionali e finanziari necessari — si veda il recente flop dell’organico del potenziamento, definito non rispetto ai bisogni delle scuole ma sulla base delle caratteristiche professionali dei docenti Gae da “sistemare” — è probabilmente all’origine da un lato delle crescenti tensioni nel mondo della scuola e dei noti fenomeni di burnout, dall’altro della minore “focalizzazione” dell’attività didattica sulle discipline caratterizzanti l’indirizzo.
Proprio questo metodo di un piano triennale dell’offerta formativa “alla carta”, senza garanzie di adeguato “tempo scuola” per gli obiettivi formativi “caratterizzanti”, costituisce probabilmente una delle cause della caduta di competenze nella produzione e comprensione linguistica, di recente denunciata da un gruppo di professori universitari.
Con la medesima logica del decreto in esame perché allora non fare un bel decreto legislativo anche per promuovere le competenze linguistiche?
Penso invece che se si ritiene opportuno introdurre nei percorsi formativi dei nostri ragazzi elementi più forti di cultura umanistica, artistica e musicale (esigenza che condivido con Berlinguer), la via maestra debba sempre essere quella — già prevista del resto dalla normativa vigente, senza bisogno di altre leggi — di una organica ed equilibrata revisione degli attuali curricoli da parte di commissioni di esperti che valutino, per ogni indirizzo di studi, il rapporto tra il profilo culturale, educativo e professionale, gli obiettivi formativi, i risultati attesi per ciascun indirizzo di studi e, d’altra parte, le indicazioni metodologico-didattiche, le discipline e i contenuti necessari per raggiungere tali obiettivi nell’ambito di un quadro orario complessivo congruo (oggi è addirittura fissato per legge, sempre per l’uso distorto dello strumento legislativo).
Ciò anche ai fini della successiva fase della valutazione circa l’effettiva acquisizione di tali competenze da parte degli alunni e dei necessari interventi in materia di formazione, contrattuali — in relazione all’organico ed alle attività aggiuntive — e, lo sottolineo, finanziari.
Lo schema di decreto legislativo in esame, in verità, prevede questa più efficace procedura solo per le scuole di primo grado ad indirizzo musicale (art. 12), seppur fissando un tempo troppo breve per una approfondita e condivisa revisione dell’attuale curricolo di tali scuole.
Fuori da ciò e cioè senza “scelte” curricolari vincolanti e responsabili, riemergeranno le perplessità già denunciate in passato sugli effetti negativi di un’eccessiva flessibilità ed episodicità dell’offerta formativa dell’autonomia (qualcuno ricorderà le polemiche sul cosiddetto Club Méditerranée dell’autonomia).
Un altro aspetto di criticità è dato dalla previsione di strutture organizzative (reti e poli) che, pur non obbligatorie, si aggiungerebbero ad altre analoghe strutture (es. quelli dell’alternanza scuola-lavoro e della formazione), con problemi organizzativi e di funzionamento che non vengono tuttavia affrontati.
Anche qui del resto sarebbe stata più utile una semplice direttiva ministeriale, per sua natura più flessibile di una legge, collegata però ad una sistematica azione di “accompagnamento” in materia di formazione dei docenti. Ciò tanto più per declinare concretamente, ad esempio, i contenuti dei “temi della creatività” (art. 3), che sembrano più materia di interventi tecnici che legislativi.
Osservo poi che stabilire per legge una percentuale del 5% del contingente dei posti per il potenziamento dell’offerta formativa, finalizzata a tali attività (art. 17), rischia di costituire un’inutile rigidità rispetto alla possibilità, già oggi prevista, che il ministro fissi, con la direttiva generale sugli obiettivi dell’azione amministrativa — mero atto di alta amministrazione — percentuali variabili anno per anno, secondo lo stato di avanzamento delle attività e gli effettivi bisogni di personale.
Anche lo stanziamento di 2 milioni di euro per tali attività non comporta risorse aggiuntive ma solo una destinazione rigida “per legge” di risorse già nella disponibilità del ministro, in base all’art. 1, comma 202, della legge n. 107/2015.
Nei limiti delle considerazioni critiche che precedono, il Piano triennale delle Arti (art. 5, comma 1), il monitoraggio valutativo dell’Invalsi (art. 5, comma 2), la consulenza e gli interventi di formazione dell’Indire (art. 6), il piano nazionale di formazione (art. 8), possono costituire comunque utili stimoli per dare sistematicità, a normativa vigente, ad un’azione nazionale tesa al superamento delle criticità rilevate sulla cultura umanistica, artistica e musicale, purché si rispetti, nell’intervento amministrativo conseguente, la libera adesione delle scuole al Piano nazionale, le cui azioni vanno comunque coordinate con gli “obiettivi” del piano triennale dell’offerta formativa propri di ciascuna istituzione scolastica.
Resta il fatto, tuttavia, che ancora una volta si sceglie la scorciatoia di “fare le riforme” con leggi — investendo tra l’altro le scuole di carte ed adempimenti formali — anziché promuovere “processi” e “politiche” sostanziali, che utilizzino strumenti più congrui e flessibili e che, soprattutto, siano capaci di adeguare via via le proposte di innovazione alle risposte concrete ai bisogni ed ai “tempi” delle scuole.
Negli anni settanta questo metodo “processuale”, utilizzato nell’Europa settentrionale, si chiamava “rolling reform”. E con esso le “riforme” sono state realizzate effettivamente e con largo consenso.